The paradigm of the social construction of reality, both in its phenomenological version with Peter Berger and in its radical one, converges in the need to root the imputation of responsibility in building the world exclusively to the human subject. In the wake of this intersubjective paradigm there is the attempt, which binds phenomenology and hermeneutics together, but without explicitly accessing constructivism, to elaborate a relational anthropology by Mario Signore, who calls into question the ethical models of responsibility of Levinas and Jonas. In a perspective more adherent to constructivism and distant from metaphysical or ontological refoundations, we offer, instead, an interpretation of the structure of responsibility with reference to Dietrich Bonhoeffer, engaged in the elaboration of an ethics of responsibility for an adult subject in an adult world.
Parole chiave: costruttivismo, fenomenologia, ermeneutica, responsabilità, risemantizzazione
Introduzione
Se la responsabilità viene messa a tema da Max Weber in un contesto specificatamente politologico, quale dote e atteggiamento per il politico di professione, le elaborazioni più complete di quello che potrebbe essere definito il paradigma dell’etica della responsabilità sono date a partire dagli anni ‘40 del secolo scorso da tre autori che hanno condiviso il triste destino di trovarsi oggetto di persecuzioni, cioè Hans Jonas, Emmanuel Levinas e Dietrich Bonhoeffer.
Qualsiasi discorso di filosofia morale, dunque, che metta a tema la responsabilità non deve dimenticare che storicamente la riflessione intorno a tale questione ha preso le mosse da un’urgenza storica, da una delle catastrofi umane più dolorose della civiltà occidentale. Le violenze occorse in Europa negli anni ‘20-’30 con la pianificazione dello sterminio di intere popolazioni costituiscono una vera e propria frattura, un segno indelebile che testimonia la persistenza all’interno della nostra cultura di un gene mai sopito dell’inciviltà, imputabile non ad un solo uomo, ma alla collettività intera che nei suoi gesti quotidiani dati per scontati ha messo in atto prassi irresponsabili, ma soprattutto ha pensato in maniera irresponsabile.
Max Weber ne La politica come professione[1] annovera tra le peculiarità necessarie per esercitare la professione/vocazione del politico la passione, intesa come una sorta di fede secolarizzata nella causa civile, la lungimiranza e, infine, il senso di responsabilità, per chiarire il quale Weber deve porre necessariamente al centro della riflessione il rapporto tra etica e politica. In realtà, afferma Weber, sono due gli atteggiamenti che il politico potrebbe mettere in atto nell’orientare la sua pratica quotidiana: potrebbe orientarsi verso un’etica dei principi e, coerentemente, far discendere le conseguenze di un’azione dal volere di Dio in una sorta di fatalismo religioso, oppure da principi generali elaborati razionalmente in sede scientifica, fino a farsi interpreti di un determinismo meccanico o biologico; all’opposto, sostiene Weber, il politico potrebbe orientare la sua azione in base all’etica della responsabilità e far discendere il proprio operato da un’analisi puntuale, sebbene costitutivamente umana, delle conseguenze che determinati provvedimenti possano avere sulla cittadinanza.
Ciò che ricaviamo da questa breve disamina del rapporto tra etica e politica in Max Weber è che a fronte di un modello generale per orientare l’azione su principi assunti come veri al di là delle contingenze storiche è ipotizzabile uno schema d’azione politico che faccia riferimento esclusivamente alla responsabilità soggettiva dell’agire. La struttura della responsabilità, già in Weber, si caratterizza come un’istanza interpersonale che fa riferimento in maniera imprescindibile ad una società caratterizzata da un alto livello di differenziazione e di soggettivizzazione dei percorsi. Non solo, emerge anche che la responsabilità è il riferimento incondizionato per elaborare un modello etico secolarizzato, in cui, così come non hanno presa i riferimenti metastorici, analogamente risultano inopportune attinenze religiose o metafisiche, e si faccia dell’uomo adulto, quello nel quale il postulato dell’intenzionalità giunge ad una piena consapevolezza, con il suo pensare e il suo agire, il protagonista assoluto della storia.
Ne deriva che l’etica della responsabilità, al di là dell’agire meramente politico, si attaglia bene ad un paradigma antropologico, tutto da elaborare, che faccia ricadere il capo d’imputazione per ciascun atto commesso dall’uomo esclusivamente sull’uomo stesso, il quale può recuperare la sua autonomia non tanto, kantianamente, sulla scorta dell’adesione previa ad un principio universale elaborato a monte dalla ragione, ma sulla base dell’imputazione soggettiva di un atto che accade in una realtà piena, intersoggettiva, sempre inedita.
Il nostro tentativo, abbozzato in queste pagine, è quello di far interagire diversi paradigmi filosofici e sociologici, al fine di delineare una struttura della responsabilità che metta al centro l’essere umano per il fatto che la costruzione della realtà, sia essa riferita ai manufatti, di cui ci serviamo sistematicamente, sia relativa agli universi simbolici di riferimento che costituiscono il patrimonio di conoscenze collettive cui attingiamo nella vita quotidiana, non è che un prodotto dell’uomo, al quale andrebbe totalmente ricondotta la responsabilità tanto nelle pratiche routinarie della sua conservazione inconsapevole, quanto nelle prassi del suo stravolgimento rivoluzionario.
L’ordito di questo percorso, del resto, si muove tra gli anfratti di un marcato pregiudizio interculturale, laddove il concetto di pregiudizio è adottato consapevolmente secondo l’uso in voga presso le scienze sociali[2], al fine di sottolineare l’adesione deliberata ad un preciso universo morale, operazione imprescindibile che contravviene a qualsiasi tentativo, apprezzabile per quanto irrealizzabile, di elaborare stereotipizzazioni value free. Bisogna prendere atto, infatti, che la presunta esenzione weberiana del processo descrittivo di stereotipizzazione da valutazioni, a differenza del pregiudizio, il quale sarebbe più legato ad un valore morale, deve essere rigettato, giacché anche la sola costruzione di categorie è fatta sulla base della selezione di alcune caratteristiche, che non sono certamente neutre, prive di valore, ma sono orientate sin dall’inizio, giungendo alla conclusione che la distinzione tra stereotipo neutrale e pregiudizio orientato è palesemente inconsistente.
Dal nostro punto di vista, che non può trascurare in via preliminare l’opzione ermeneutica, il pregiudizio è legato ad un approccio che non concepisce la categorizzazione sociale come un qualsiasi processo cognitivo, ma come un prodotto specifico del linguaggio, che è sempre in situazione, dato in circostanze storiche e spaziali ben determinate. Sicché il nostro pregiudizio interculturale ha a che fare con una scelta di campo ben definita, la quale contro qualsiasi pretesa di dimostrare, vorrebbe, invece, mostrare le opportunità di adottare schemi di pensiero e di azione orientati alla lettura della complessità all’insegna dell’interdipendenza delle discipline e delle culture, della multidimensionalità della realtà che si offre alla nostra comprensione, contro le concrezioni e le sedimentazioni rigide, nate nel linguaggio e perpetrate nel pensiero.
Il tentativo di argomentare a proposito della responsabilità etica secondo un preciso pregiudizio interculturale, dunque, prenderà le mosse da un orientamento sociologico ben definito e che rimanda al paradigma della costruzione sociale della realtà, soprattutto nella sua componente fenomenologica, sebbene la sua versione radicale offra notevoli spunti di riflessione. Acclarata sul versante sociologico la totale imputazione della responsabilità della costruzione della realtà all’uomo, il passo successivo vedrà in azione il momento specificatamente ermeneutico, orientato a delineare, alla fine, una struttura inerente all’agire morale responsabile adeguato ad un orizzonte interculturale e interreligioso.
La responsabilità nel paradigma della costruzione sociale della realtà
Ad argomentare a proposito dell’esistenza di un “paradigma” della costruzione sociale della realtà è Paolo Jedlowski[3], il quale chiarisce il significato dell’opera La realtà come costruzione sociale[4] di Peter Berger e Thomas Luckmann in relazione all’esito che tale testo ha avuto in seguito all’affermazione del costruttivismo radicale e alla sua deriva relativistica.
Ora, effettivamente, che la realtà fosse una costruzione sociale era già stato, in qualche modo, affermato da Marx, ma la caratteristica di “paradigma” consolidato nelle scienze sociali deve farci pensare che il suo ruolo, dal punto di vista epistemologico, acquista significatività in netta opposizione al “paradigma positivistico”, secondo il quale la conoscenza consisterebbe in un rispecchiamento della realtà, ma anche in opposizione ad un rinnovato “realismo metafisico”, che si sarebbe affermato negli ultimi anni in ambito filosofico e, di rimando, anche nelle scienze sociali.
L’opzione fenomenologica del paradigma della costruzione sociale della realtà, così come è esposta da Berger e Luckmann[5], risente fortemente della sociologia della conoscenza, di cui vengono tracciate le coordinate storiche a partire da Max Scheler fino a Karl Mannheim, cercando di tenere presente la differenza tra un’analisi empirica di ciò che passa come conoscenza in una società e il valore ontologico ed epistemologico di tale conoscenza, che rimane di competenza specifica della filosofia o della metodologia delle scienze sociali. Questa precauzione metodologica degli autori nel tener distinte la sociologia della conoscenza dalla filosofia sta proprio nel prendere le distanza da quest’ultima, la quale tende ad indugiare spesso in fondazioni ontologiche che, stando al giudizio espresso sull’opera di Max Scheler, sono superate dagli stessi presupposti della sociologia della conoscenza. La sola osservazione empirica delle varie società giustificherebbe la radicale statuizione della relatività sociale e da questa posizione si parte per analizzarne i meccanismi di assimilazione di una realtà data al punto da diventare conoscenza condivisa intersoggettivamente. Si potrebbe dire che, contro le concrezioni ontologiche di Scheler, gli autori optino per una sociologia della conoscenza che, nel solco della riflessione di Mannheim, prenda come punto di partenza il “relazionismo”, cioè la consapevolezza che la conoscenza è sempre situazionale, da distinguere nettamente dal “relativismo”, inteso principalmente come un orientamento morale, sostenuto dai filosofi postmoderni e assolutamente distante dalla prospettiva di Berger e Luckmann.
Diversamente dalle ambizioni universalistiche della fondazione filosofica, dunque, la sociologia della conoscenza, proprio in quanto disciplina empirica, si fonda sulla relatività e sulla determinatezza e, contro le speculazioni filosofiche, tale approccio si fonda sulla Lebenswelt nella quotidianità. Nel cercare di indagare il senso comune nella sua fruizione della Lebenswelt, Berger e Luckmann scelgono di seguire il loro maestro, Alfred Schütz, allievo a sua volta di Edmund Husserl, capace di imprimere una torsione sociologica alla fenomenologia, che le consente di innestare l’intenzionalità della coscienza, l’intersoggettività e la questione del senso all’interno di un paradigma costruttivistico della realtà, ponendosi in un rapporto proficuo anche con l’ermeneutica e lasciandosi alle spalle le disquisizioni sul “tutto” e sulla “verità”, su cui la filosofia aveva eretto il suo impianto.
A sottolineare come questo interessante legame tra fenomenologia ed ermeneutica conduca quasi necessariamente a propendere per l’elaborazione di un orizzonte costruttivistico della realtà sociale è Mario Signore, figura eclettica di pensatore e Direttore per diversi anni dell’indirizzo di Dottorato Etica e Antropologia. Storia e Fondazione presso l’Università del Salento, il quale proprio nel tentativo di elaborare un’antropologia in cui la responsabilità etica venisse interamente imputata al soggetto, mette in evidenza un percorso di riflessione che, prendendo le mosse dalla filosofia da Hegel e Husserl, porta poi alla sociologia di Weber e Schütz[6], giacché la questione del senso non può essere affrontata se non a partire dal soggetto comprendente, dalla coscienza, per poi terminare nella dimensione intersoggettiva. La prospettiva filosofica di Hegel, infatti, considera la questione del senso all’interno della questione della “verità”, afferma Signore, sicché senso e verità coincidono per il soggetto, che ha il compito di attivare il movimento conoscitivo fino a cogliere in maniera universale la verità. Nella fenomenologia di Husserl, invece, l’accento si sposta sul linguaggio e, di conseguenza, diventano irrilevanti le prospettive sul “tutto” e sulla “verità” perché ciò che interessa maggiormente è il movimento che porta la coscienza a dare un senso alla realtà: «qui l’intenzionale “essere rivolto a” si identifica con l’attività della “costruzione di senso”»[7]. Il legame tra verità e senso è così spezzato in favore della costruzione di significati a partire, quasi inevitabilmente, dalle esperienze del soggetto, dalla sua Lebenswelt, nella quale certamente il soggetto trova già oggettivato un senso, ma al quale non è completamente vincolato, come se fosse afferrato e sovrastato dagli eventi della storia e del destino, ma può esercitare un ampio margine di libertà e responsabilità: «Crediamo di poter concludere questa parte rilevando come il problema del senso sia legato a quello della libertà della coscienza ed anche alla responsabilità del soggetto»[8].
Non solo, secondo Signore, la particolare torsione fenomenologica della sociologia consente di tornare su un tema già caro a Weber, quello sullo statuto della conoscenza, tentando con Schütz di rompere definitivamente con la metafisica, giacché la dimensione principale entro la quale l’uomo si muove è dominata dall’agire sociale, il cui senso non è che il risultato della relazione tra uomo e mondo. Si potrebbe dire che già nella sociologia di Weber, in qualche modo, viene affermata l’esigenza di porre in primo piano il pluralismo dei mondi della vita, che si configura come una discriminante sostanziale tra l’indagine filosofica, ancorata al problema dell’universale, e quella sociologica, che, riguadagnando sul piano empirico la costruzione del senso intersoggettivo della realtà, prende definitivamente le distanze dal pensiero unico e afferma con cognizione di causa il pluralismo, la relazionalità, la comparazione. Tuttavia, con la sociologia fenomenologica di Schütz, e poi di Berger e Luckmann, l’intersoggettività diventa il perno intorno al quale ruota la costruzione del senso, lontana da concrezioni e indagini sulla radice ontologica delle cose; ciò che interessa è la costruzione del senso per mezzo di sistemi semantici, simbolici, laddove la condizione di possibilità della costruzione intersoggettiva diventa solo il linguaggio, con tutta la sua portata ermeneutica, come evidenzia molto acutamente Mario Signore: «Qui la “problematica del senso” passa dal campo della fenomenologia a quello dell’ermeneutica»[9].
In effetti, ciò che, secondo Jedlowski, costituisce il significato essenziale de La realtà come costruzione sociale è proprio la posizione secondo la quale le forme che le società umane hanno assunto nel corso del tempo non è riconducibile né ad un intervento divino, che plasma le forme sociali, né ad un automatismo della natura, bensì esclusivamente all’azione congiunta di tutti gli uomini. Del resto, lo stesso Jedlowski sottolinea l’importanza dello sfondo filosofico che rende plausibile il paradigma della costruzione sociale della realtà, vale a dire il debito nei confronti della filosofia del linguaggio di Wittgenstein e dell’ermeneutica filosofica di Gadamer.
Gli assunti fondamentali di quello che può essere definito il paradigma della costruzione sociale della realtà, dunque, consistono in primo luogo nel concepire la realtà come una costruzione appresa dai soggetti all’interno di schemi simbolici e cognitivi di natura sociale, perlopiù già dati (Vorgegeben), mediati dal linguaggio all’interno delle pratiche e delle forme di vita determinate; in secondo luogo è importante sottolineare che questa realtà sociale appresa, che si estrinseca in complessi normativi, strutture di plausibilità – sovrastrutture, per usare un termine marxiano estraneo, in verità, all’orizzonte semantico di Berger e Luckmann -, è mantenuta in vita dalla volontà di una pluralità di individui, che la genera e la consolida, donandole senso (Sinngebung); infine, viene messo l’accento sul fatto che il meccanismo di produzione e costruzione della realtà, che è quindi un meccanismo prettamente umano, è perlopiù misconosciuto in quanto tale, infatti la realtà sociale risulta reificata, come se fosse naturalmente riprodotta.
Con questi presupposti non si può non cogliere il tentativo alla base del paradigma della costruzione sociale, nella sua versione fenomenologica, di procedere ad una critica di qualsiasi tentativo reificante di rendere la conoscenza soggettiva un rispecchiamento della realtà oggettiva e, di conseguenza, procedere a fondazioni metafisiche e ontologiche. La storicizzazione e la contestualizzazione dei processi di costruzione della realtà sociale non possono dare adito a teorizzazioni feticizzanti, per cui, si tratta di de-feticizzare la realtà, che equivale a dire che occorre decostruire alcune rappresentazioni troppo condizionate, ad esempio da interessi economici, di potere, al fine di ricostruire spazi intersoggettivi e interculturali, la cui responsabilità vada ricondotta esclusivamente agli uomini sia nella loro dimensione quotidiana sia a livello politico.
Va sottolineato, tuttavia, a nostro avviso, che la conclusione secondo la quale la relativizzazione sia un fatto sociale inarrestabile, che conduce al riconoscimento del pluralismo culturale, non comporta necessariamente il passaggio immediato al relativismo in ambito morale. Infatti, in seguito ad alcune storture e fraintendimenti cui è andato incontro il paradigma della costruzione sociale della realtà, associato indebitamente ad una distorta ricezione negli Stati Uniti del complesso teorico del postmodernismo, lo stesso Berger in Elogio del dubbio[10] ha sentito l’esigenza di precisare che l’idea che la realtà sia una costruzione sociale, che le credenze siano variabili dello spazio e del tempo, non debba essere confusa con il relativismo postmoderno. Non bisogna, infatti, confondere il lavoro di chi ha demolito la pretesa epistemologica di cogliere qualcosa che fosse definibile in maniera incontrovertibile come verità oggettiva, con quello di chi giunge alla conclusione di ritenere tutte le narrazioni equivalenti sul piano morale. Esiste, in sostanza, un’evidenza incontestabile nel cogliere gli eventi della realtà fisica, come sosterrà, su tutt’altro versante, anche John Searle[11], impegnato analogamente a opporre un correttivo realistico, al limite della rifondazione ontologica, alla deriva relativistica. Questa esplicita presa di posizione di Berger, che giunge in un secondo momento della sua produzione, in favore di una minima forma di realismo è affermata per evitare che il costruttivismo sociale, come spesso è stata definita la posizione contenuta ne La realtà come costruzione sociale, e dalla quale egli prende le distanze, venisse confusa con il presupposto postmoderno secondo il quale la costruzione della realtà sia una creazione ex nihilo e valesse come qualsiasi altra interpretazione della realtà.
La pericolosità del relativismo postmoderno, teso esclusivamente alla decostruzione di qualsiasi metanarrazione, viene presentata come l’anticamera del nichilismo e agisce nel campo dell’etica con la stessa portata deresponsabilizzante del fondamentalismo, inteso come il tentativo di ripristinare la certezza anacronistica di una vecchia concezione del mondo. Per Berger relativismo e fondamentalismo sono due facce di una stessa medaglia, tipici atteggiamenti postmoderni che conducono alla totale deresponsabilizzazi0ne del soggetto con una conseguente violazione di quella che egli definisce, in senso antropologico più che biologico, la “natura umana”.
È in questo passaggio che Berger si sofferma in maniera significativa sulla definizione di responsabilità, mostrando chiaramente come il paradigma della costruzione sociale della realtà, nella sua variante fenomenologica, conduca direttamente all’etica della responsabilità, avendo come riferimento principale il soggetto all’interno del processo di dazione di senso. Berger qui si richiama alla classica distinzione di Max Weber tra etica dei principi (Gesinnungsethik) ed etica della responsabilità (Verantwortungsethik), laddove la prima farebbe riferimento ad un atteggiamento morale che orienta l’azione in accordo a dei principi assunti come veri e fondanti, la seconda, invece, non assume un principio previo, ma si basa sul discernimento, sulla valutazione delle conseguenze e sulla necessità, talvolta, di “sporcarsi le mani”. Da questo punto di vista, Berger ritiene assolutamente irresponsabile una condotta basata ineluttabilmente su principi a priori, foss’anche il principio della nonviolenza di Tolstoj e Ghandi, giudicata addirittura una condotta da stupidi:
Durante la Seconda guerra mondiale, un gruppo di ebrei chiese a Ghandi se fosse assolutamente contrario a resistere a Hitler con mezzi violenti. Gandhi disse di sì. Quindi gli chiesero: e se, come risultato, venissimo tutti ammazzati? Gandhi rispose: allora potrete morire nella consapevolezza della vostra superiorità morale. Se gli ebrei avessero accettato questo ragionamento, sarebbero stati solo degli stupidi. Ma il fatto che Gandhi la proponesse mostrava l’irresponsabilità della sua ideologia della nonviolenza.[12]
Se, tuttavia, nella versione fenomenologica, diremmo moderata, del costruttivismo di Berger vi è questa presa di posizione in favore della responsabilità, come esigenza antropologica, sul versante di quello che viene definito “costruttivismo radicale” l’affermazione della responsabilità come categoria fondamentale del soggetto è ancora più netta:
Non è necessario penetrare tanto a fondo il pensiero costruttivista per rendersi conto che questa concezione porta infallibilmente a rendere responsabile l’uomo pensante, e lui solo, del suo pensiero, della sua conoscenza e, conseguentemente, anche delle sue azioni. Oggi che i comportamentisti addossano, come sempre, tutta la responsabilità all’ambiente, mentre i sociobiologi vorrebbero scaricarne gran parte sui geni, è scomoda una teoria la quale attribuisce a noi stessi la responsabilità del mondo in cui pensiamo di vivere.[13]
Si tratta di inserire i concetti e i costrutti della responsabilità, nonché la struttura dei giudizi sulla realtà, in un sistema più ampio, che travalichi i confini dell’etica e dell’epistemologia, in cui sono solitamente inseriti, per farli interagire all’interno di una prospettiva comune. Se la responsabilità, dunque, rimanda all’elaborazione di un modello etico, il giudizio, che costituisce il presupposto della conoscenza, deve essere considerato all’interno di un orizzonte determinato dal costruttivismo, giacché sono i giudizi a costruire la realtà, che viene assimilata dal soggetto a partire dalle oggettivazioni disponibili, ma sulle quali egli può operare e orientare la prassi a seconda dei valori che intende realizzare.
Il costruttivismo radicale, molto più di quello fenomenologico, ci viene in soccorso per comprendere le modalità con cui elaborare un’etica della responsabilità in cui il soggetto sia consapevole e responsabile della costruzione della sua realtà per mezzo dei giudizi che egli formula quotidianamente. Si tratta di affermare una dimensione adulta in cui il soggetto prende le distanze da precipitati ontologici e metafisici, sicché anche l’etica, il complesso delle azioni giudicate buone o cattive, deve essere predisposto e costruito sulla base di un’adeguata e consapevole formazione sui valori:
Il costruttivismo radicale è quindi radicale soprattutto perché rompe con le convenzioni e sviluppa una teoria della conoscenza in cui la conoscenza non riguarda più una realtà “oggettiva” ontologica, ma esclusivamente l’ordine e l’organizzazione di esperienze nel mondo del nostro esperire. Il costruttivista radicale ha abiurato una volta per tutte il “realismo metafisico. [14]
L’importanza del costruttivismo radicale per il nostro percorso sta nel concepire il mondo come una totale costruzione del soggetto, che, pertanto, non può vantare nessuna valenza oggettiva né pretesa veritativa né consonanza con un ordine ontologico. Di conseguenza, la conoscenza diventa una procedura di costruzione da parte di un soggetto attivo: non esistono “cose in sé”, cioè oggetti che sono strutturati e costruiti in maniera indipendente rispetto all’esperienza del soggetto. Il costruttivismo radicale, del resto, recupera in maniera interessante anche il momento intenzionale della coscienza, che risulta sempre orientata verso una meta, ma alla quale si aggiunge una specificazione riguardante la previsione di un obiettivo finale, una progettualità che il soggetto metterebbe in conto.
Infine, con il costruttivismo radicale si riesce a ricavare che i giudizi sulle cose si formano a partire da paragoni, attraverso la relazionalità e la comparazione tra le esperienze, mediante la quale si stabilisce la continuità o la necessità della revisione dei giudizi sulle cose stesse, come anche dell’autopercezione soggettiva nel tempo e nello spazio.
La necessità ermeneutica della risemantizzazione
Il richiamo al paradigma del costruttivismo, sia nella sua versione fenomenologica sia in quella radicale, è stato necessario per giungere alla conclusione che ogni interpretazione comprendente, ogni atto comunicativo, alludendo anche alla struttura degli atti performativi[15], non è che un costrutto di cui va reso responsabile solo il soggetto che lo determina, nonostante l’attenuante di averlo attinto dalla realtà sociale nella quale è inserito.
Tuttavia, nella prospettiva che s’intende tracciare qui, l’obiettivo è quello di travalicare i confini della sociologia della conoscenza, dell’epistemologia, della filosofia e della cibernetica, entro cui, ad esempio, il costruttivismo radicale si muove, per accedere a due sole dimensioni che attraversano trasversalmente le diverse discipline, cioè quella fenomenologica, necessaria per l’approccio analitico, diagnostico, allo studio delle dinamiche della realtà oggettivata, del “già dato” nella vita quotidiana (Vorgegeben), e quella ermeneutica, inerente all’approccio sintetico, come dire prognostico, nella costruzione e nella dazione di senso della realtà a venire (Sinngebung).
E su questo versante, che lega insieme in maniera proficua fenomenologia, ermeneutica, antropologia relazionale ed etica della responsabilità, si muove anche Mario Signore, il quale pur prestando ascolto alle istanze postmoderne, ha manifestato in più di una occasione l’idea che fosse ancora possibile individuare un puntello metafisico e ontologico su cui ancorare l’etica e inchiodare la ragione davanti all’urgenza della responsabilità nella fruizione quotidiana della realtà sociale: «E non è ancora un segno di questa tendenza il rinato interesse per la metafisica e l’ontologia, magari adeguatamente ridiscusse alla luce dell’istanza personalistica ed esistenzialistica, con tutte le riserve che si esprimono contro la pretesa di oggettivare l’essere?»[16].
L’impianto teorico di Mario Signore, in realtà, non incontra mai il paradigma costruttivistico, sebbene il suo intento è quello di costruire, o ricostruire, un orizzonte morale largamente debitore dei modelli di etica della responsabilità più accreditati, tra cui quello di Hans Jonas, grazie alla mai sopita istanza metafisica, ma anche quello di Emmanuel Levinas, per l’affondo ermeneutico. Tuttavia, l’aspetto più interessante del pensiero di Mario Signore per il nostro argomentare è legato all’uso spregiudicato e coraggioso dell’ermeneutica. In diversi suoi lavori emerge costantemente l’urgenza della ricostruzione di un nuovo orizzonte di senso, per il pensiero e per l’azione, fino alla necessità di operare una sistematica risemantizzazione, la cui radice viene individuata proprio nella fenomenologia:
Senza polisemia non avremmo la ricchezza del simbolo, ma senza sistema questa ricchezza rischierebbe l’incomunicabilità: il sistema permette di disciplinare la significazione dei simboli limitando e definendo. Di qui il rimando di semantica e strutturalismo e la necessità di stabilire il discorso stesso (isotopia) […], facendo sempre uno sforzo di risemantizzazione, che parta dal fondo secondo l’istanza fenomenologica di zurück zu kommen, che impegna ad andare oltre i significati consolidati, alla ricerca della “sorgente” del senso.[17]
L’intera opera di Mario Signore è puntellata da numerose operazioni di risemantizzazione dei concetti portanti della tradizione occidentale, al fine di cercare di eliminare alcune concrezioni del pensiero e dell’azione che hanno dato la stura alla peggiore versione della civiltà occidentale, da cui deriva anche l’impegno personale di Signore nel tentare di costruire ponti tra culture, intesi sia nella direzione interculturale[18] sia in quella interdisciplinare[19]. Se in alcuni punti appare evidente la volontà di non trascurare «gli esiti speculativi, più strettamente filosofici, che portano inevitabilmente ad una riconsiderazione (risemantizzazione?) della ragione»[20], altrove sarà il concetto di cultura, di realtà, di soggettività[21], di libertà, globalizzazione[22], ecologia[23] a necessitare di una risemantizzazione, al fine di privilegiare il momento ricostruttivo, dopo la decostruzione, nella direzione anche politica ed economica di una società più inclusiva.
In sostanza, in relazione al nostro argomentare, si potrebbe caratterizzare la risemantizzazione come una pratica quotidiana, talvolta data per scontata, che, se venisse riportata all’attenzione della coscienza del soggetto e adoperata consapevolmente, potrebbe muoversi all’interno di una prospettiva etica, recuperando la piena responsabilità per ciascun soggetto. Ogni interpretazione della realtà è, in fondo, una ricostruzione responsabile della stessa, tesa a predisporre un contesto sociale che oggettiva valori e routinizza pratiche che gli altri trovano immediatamente disponibili, la cui finalità deve essere quella di rendere la società sempre più equa e confortevole per tutti. Si tratta di un progetto etico e pedagogico nella misura in cui la phronesis, intesa come quella forma di sapere che ci aiuta ad orientare la scelta, incontra la paideia, cioè quell’azione mediante la quale predisponiamo le oggettivazioni che vogliamo siano soggettivate, le quali poi aiutano ad orientare responsabilmente la scelta e la narrazione in vista della convivenza nella polis.
Per Mario Signore la necessità di ripensare e operare una risemantizzare, anche della stessa soggettività, che non è più ritenuta egemonica, «ma relazionata, dialogante, responsabilmente impegnata»[24], deriva dall’urgenza di elaborare, in una chiave che è implicitamente costruttivistica, nuovi paradigmi antropologici, adeguati ad una società pluralistica e complessa entro cui comprendere le prassi dell’etica della responsabilità.
Tuttavia, nonostante sia evidente in Mario Signore una certa tendenza a rivalutare istanze metafisiche e ontologiche, che è, differentemente dell’esito della fenomenologia sociale, l’opzione che egli auspica, sebbene all’interno di un quadro risemantizzato, è molto apprezzabile il tentativo di operare nella congiunzione e della coordinazione di tutti i saperi, superando le vecchie distinzioni epistemologiche, come anche l’autoreferenzialità sistemica.
Per cercare di ancorare nella costituzione dell’essere umano la responsabilità etica del soggetto, Mario Signore cerca di elaborare un’antropologia relazionale che preveda un recupero dell’intenzionalità della coscienza e dello sguardo, per accedere poi al momento della donazione di senso, della costruzione di un nuovo universo simbolico, che non sia ovviamente totalizzante né solipsistico, ma programmaticamente condiviso ed elaborato in sede intersoggettiva. Del resto, il confronto proficuo con il paradigma dell’antropologia postumana di Roberto Marchesini, che gravita, secondo Signore, nell’alveo per pensiero della postmodernità[25], gli permette di prendere le distanze dal modello classico dell’antropocentrismo ontologico, caratterizzato, da un lato, dall’antropomorfismo, che mette l’uomo al centro di tutte le cose, e dall’altro all’antropocentrismo separativo, cioè da quella posizione che evidenzia la specificità umana per far risaltare la discontinuità. Tuttavia, a nostro avviso, il limite del percorso di Mario Signore sta, alla fine, nel ripiegamento verso una dimensione che chiama in causa la trascendenza, non solo quella orizzontale dell’alterità, ma addirittura quella connessa con la tradizione religiosa, l’esperienza della fede, interpretata come correttivo epistemologico per far fronte alla direzione che ha preso la ragione:
Forse conviene mettere in cantiere un’antropologia postsecolare, che, liberando l’uomo da ipoteche liberiste che spingono a usare i propri diritti individuali come armi contro il prossimo, lo rimetta in ascolto delle tradizioni religiose e lo apra all’esperienza della fede, come salutare antidoto (o almeno correttivo) di quella hybris della ragione occidentale.[26]
Vi è da dire che, nel nostro caso, il ricorso alla sociologia fenomenologica, che vanta una metodologia di ricerca empirica, non viene fatto per sostanziare un discorso sulla fondazione antropologica, ma solo perché la sociologia della conoscenza, che da Max Scheler e Karl Mannheim in poi si occupa di ciò che i soggetti assumono come sapere all’intero di società determinate nel tempo e nello spazio, quindi distante da elaborazioni ontologiche o metafisiche, appare a chi scrive più attenta nel tentativo leggere i bisogni dell’uomo contemporaneo per permettergli, progettualmente, di costruire un mondo che preservi qualsiasi forma di esistenza sulla Terra, giacché le istituzioni e le infrastrutture, come anche le tecnologie che consentono la sopravvivenza o l’estinzione, come ci ricorda Hans Jonas, sono in capo esclusivamente all’uomo. Per questi motivi il modello di antropologia relazionale, eventualmente da elaborare, non potrà che partire da una lettura della responsabilità etica non tanto come opzione, come modello da adottare tra gli altri, ma come assoluta imputabilità della costruzione della realtà sociale al solo soggetto, ad un soggetto adulto, che è reso consapevole del ruolo che ha nella comprensione, nell’interpretazione e nella comunicazione dei fenomeni sia nella dimensione intersoggettiva, a livello umano, sia nella dimensione dell’inter-essere, superando la mera umanità per connettersi a tutto il creato, come suggeriscono soprattutto le tradizioni di pensiero non occidentali.
La struttura della responsabilità
Nel tirare le somme riguardo alla portata del costruttivismo radicale per la filosofia e la scienza, Paul Watzlawick respinge le accuse di nichilismo, avanzate da chi riteneva che tale orientamento conducesse verso una concezione dell’esistenza senza un «significato ultimo», anticamera della disperazione e del suicidio. Piuttosto che suicida, invece, l’atteggiamento di chi comprende i meccanismi che sottostanno al costruttivismo è paragonabile a quello del ricercatore, infatti «Il suicida arriva alla conclusione che ciò che egli cerca non esiste; il ricercatore conclude che non ha ancora guardato al posto giusto. Mentre il suicida introduce lo zero nell’”equazione esistenziale”, il ricercatore vi introduce l’infinito»[27].
Conseguentemente, l’attitudine di chi assume un punto di vista costruttivistico sulla realtà, e non ontologico o metafisico, conduce, secondo Watzlawick, in primo luogo alla tolleranza, cioè ad ammettere di non possedere la verità assoluta e ad annettere credibilità anche alle costruzioni del mondo elaborate da altri soggetti. In secondo luogo, inoltre, dal punto di vista etico il paradigma costruttivistico non può che rimarcare il fatto che solo al soggetto deve essere imputata la responsabilità della costruzione, non solo delle proprie possibilità esistenziali, ma del mondo stesso, delle istituzioni e delle relazioni sociali nelle quali si trova inserito. Infine, l’affermazione della responsabilità diventa la leva per dare sostanza alla totale libertà umana e per comprendere che «Chiunque fosse consapevole di essere l’artefice della propria realtà, sarebbe ugualmente consapevole della possibilità, sempre immanente, di costruirla in modo diverso. Nel senso più autentico della parola, questo individuo sarebbe un eretico, vale a dire qualcuno che sa che vi è possibilità di scelta»[28].
Se, da un lato, la conclusione cui giunge il costruttivismo radicale è quella di affermare in un solo colpo tolleranza, responsabilità e libertà per il soggetto, dall’altro, l’intera opera di Peter Berger è articolata intorno alla necessità sociologica di ammettere e sostenere consapevolmente il pluralismo dei mondi della vita[29], al fine di evitare di scadere nel fondamentalismo e nel radicalismo, e, dal punto di vista antropologico, di ritenere la modernità, proprio a causa della pluralizzazione, il luogo specifico della libertà, la quale comporta un’enorme possibilità di scelta per il soggetto, fino ad ammettere una sorta di imperativo eretico[30].
Con queste premesse costruttivistiche, vorremmo cercare, in quest’ultima parte, di delineare una struttura per l’etica della responsabilità a partire dal confronto tra tre autori caratterizzati da un comune retroterra culturale, che risente fortemente delle indagini fenomenologiche ed ermeneutiche alle quali potevano accedere liberamente grazie agli studi dei loro maestri. Si tratta di far interagire il pensiero di Emmanuel Levinas, Hans Jonas, ma soprattutto di Dietrich Bonhoeffer, al fine definire alcune caratteristiche portanti che siano orientative per l’agire quotidiano del soggetto, reso consapevole e artefice della realtà personale e sociale in cui vive.
Se l’itinerario filosofico di Levinas si avvia con il tentativo fenomenologico di elaborare un pensiero rispettoso dell’assoluta trascendenza dell’alterità, concepito in netta opposizione all’esito fagocitante e imperialistico cui era giunta la filosofia occidentale, identificata come ontologia[31], il momento più alto della sua riflessione potrebbe essere rappresentato dal ricorso al potenziale del linguaggio, il quale permette di costruire il rapporto etico fondato sulla responsabilità nei confronti d’altri: «La relazione con Altri, la trascendenza consiste nel dire il mondo ad Altri»[32] e nel dirlo, nel costruirlo, si fa l’esperienza del volto altrui, che invade la sfera del soggetto, investendola di responsabilità.
Si può considerare di natura ermeneutica, del resto, il percorso che nel testo Dal Sacro al Santo[33] Levinas ha voluto condurre sull’ebraismo tradizionale, il quale, stretto nei confini della dimensione “sacrale” non è riuscito a rivelare la fonte della moralità, che in questo caso coinciderebbe con la “santità”. Si tratta di un percorso analogo a quello che ha visto Dietrich Bonhoeffer, il quale sostiene che l’altro s’incontri innanzitutto nelle relazioni sociali, etiche e non gnoseologiche, impegnato nel sostenere il superamento della sacralità, così come era stata tracciata da Rudolf Otto nel suo Das Heilige[34], per accedere ad una forma di cristianesimo non religioso nel suo recupero etico, un progetto che viene abbozzato in una lettera del 3 agosto 1944 dal carcere di Tegel, ma sfortunatamente perduto nel trasferimento alla prigione di Prinz-Albrecht-Strasse[35].
Sia Levinas sia Bonhoeffer si muovono, del resto, nell’ambito di un completo rovesciamento delle etiche soggettivistiche e universalistiche, che hanno il loro fondamento nell’ontoteologia, massima espressione del pensiero occidentale. Inoltre, vi è un luogo della riflessione di Levinas in cui il filosofo sembra molto vicino a Bonhoeffer sulla necessità di prendere le distanze dalla dimensione sacrale e numinosa della religione, infatti, quasi anticipando il momento della demitologizzazione del cristianesimo di Rudolf Bultmann, Levinas ritiene che sia stato il giudaismo a de-magizzare il mondo, a prendere le distanze dalle potenze numinose e ad innestarsi sul pensiero filosofico ed etico grazie al concetto di giustizia, legato indissolubilmente alla relazione umana che si svolge nella mondanità:
Il numinoso o il sacro avvolge e trasporta l’uomo al di là dei suoi poteri e dei suoi voleri. Ma una vera libertà si offende di questi surplus incontrollabili. Il numinoso annulla i rapporti tra le persone facendo partecipare gli esseri, magari nell’estasi, a un dramma che questi esseri non hanno voluto, a un ordine in cui naufragano. Tale potenza in certo modo sacramentale del divino appare nel giudaismo come qualcosa che ferisce la libertà umana e come contraria all’educazione dell’uomo, che rimane azione su un essere libero. […] Il sacro che mi avvolge e mi trasporta è violenza.[36]
D’altro canto, la riflessione sull’etica della responsabilità di un altro filosofo di matrice ebraica, Hans Jonas, prende spunto proprio dalla consapevolezza dell’impotenza di Dio, di cui l’autore ha preso coscienza sotto il nazismo nella tragedia di Auschwitz[37], per cui Il principio responsabilità muove da un destino realisticamente a portata di mano, cioè l’annientamento di qualsiasi forma di vita umana futura. La minaccia della catastrofe imminente, frutto di profonde conoscenze scientifiche applicate all’analisi pragmatica e alla capacità di prevedere gli esiti dei nostri comportamenti, potrebbe sortire un effetto positivo sugli uomini, i quali, atterriti dalla funzione “euristica” paura, potrebbero sentire l’urgenza di legarsi all’insegna della solidarietà. In Jonas, pertanto, la responsabilità deriverebbe da una conoscenza preventiva degli scopi e degli effetti della tecnologia, vale a dire su una sovrastruttura di tipo logico-gnoseologico capace di cogliere l’inevitabile destino catastrofico dell’umanità.
L’euristica della paura, che prelude ad un’etica del futuro, appare, tuttavia, a nostro avviso troppo legata alla matrice confessionale del filosofo fino a far pensare al trasferimento di tutto l’armamentario dell’apocalittica millenaristica giudaica con valore parenetico dalla sfera religiosa a quella mondana-tecnologica. Non solo, ma tutto l’impianto etico di Jonas è orientato, alla fine, alla rifondazione metafisica ed ontologica: l’umanità non può essere annientata dalle tecnologie, ma deve continuare ad esistere in quanto l’essere, inteso nel senso della natura umana, è teleologicamente orientato all’intrinseco svolgimento. In fondo, l’essere si rivela, nel pensiero di Jonas, come il bene in sé da realizzare assolutamente rispetto all’incombenza del nulla «e in tal modo l’assiologia diventa una parte dell’ontologia»[38].
Si ritorna, insomma, alla necessità di fondare l’etica su basi metafisiche ed ontologiche, proprio quella necessità da cui Bonhoeffer, invece, intende prendere le distanze, facendo poggiare la sua etica della responsabilità sull’essere-per-altri e non su dover-essere o sul concetto di Dio come valore assoluto, ormai tramontato con l’espulsione del sacro dalla società civile attraverso il fenomeno della secolarizzazione. Si tratta, in fondo, di un principio concreto cui uniformarsi: l’etica è, infatti, con-formazione all’esempio di Cristo, considerato come uomo, modello esemplare e mondano alla cui sequela occorre porsi.
La struttura della vita responsabile che viene presentata nell’Etica[39] di Bonhoeffer, a nostro avviso, si muove all’interno di una relazione etica intersoggettiva, caratterizzata essenzialmene dalla libertà personale e dalla dimensione della socialità, recuperata grazie al fondamento kenotico, al fatto che anche Dio si sia immischiato nelle questioni mondane, svuotandosi della sua divinità. Si tratta di quattro semplici direttive che, lette al di là di qualsiasi riferimento religioso o divino, per esplicita presa di posizione dell’autore, definiscono, di volta in volta, la condotta morale che il soggetto può assumere in un orizzonte costruttivistico della responsabilità.
In primo luogo, Bonhoeffer parla di «sostituzione vicaria» (Stellvertretung), caratterizzata dal presentarsi al posto di altri: è la posizione scomoda di chi si prende cura e soffre empaticamente per altri uomini, rappresentata emblematicamente dalla figura del padre, dell’uomo di stato, figure che rappresentano l’essere-per-altri. Non è possibile, infatti, sviluppare una riflessione etica sull’individuo isolato o sul soggetto astratto, giacché l’esistenza stessa è immersa nella socialità e fa innanzitutto esperienza della trascendenza altrui nel rapporto etico caratterizzato dalla responsabilità, grande o piccola che sia. La responsabilità è la cifra determinante delle relazioni sociali e ad essa, sartrianamente, non si può sfuggire:
Nessuno può sfuggire alla sua responsabilità, ossia al dovere di operare invece di qualcun altro. Persino l’individuo isolato vive vicariamente, e lo fa in modo particolarissimo, poiché vive la sua vita in rappresentanza di ogni uomo, dell’umanità intera. L’idea di essere responsabile di sé stessi ha senso solo se si riferisce alla responsabilità che io ho verso me stesso in quanto uomo, ossia per il fatto di essere uomo. La responsabilità verso sé stessi è in realtà una responsabilità verso l’uomo, verso l’umanità.[40]
Bonhoeffer si muove nel territorio complesso dell’azione concreta e della riflessione etica nella consapevolezza che nel mondo adulto (Die mündige Welt), dal quale Dio ha preso congedo, la vita responsabile nella forma della sostituzione vicaria si attua nell’assoluta incertezza e aleatorietà dell’esito finale e, pertanto, va condotta nel totale disinteresse (Anspruchslosigkeit), modestia e abnegazione.
Con il secondo momento della «conformità alla realtà» (Wirklichkeitgemässheit) Bonhoeffer intende esprimere quel principio secondo il quale l’azione non è indicata in un programma metastorico, eterno ed immutabile, ma si definisce di volta in volta in conformità alla fatticità della situazione. Nell’azione responsabile in nome della vicarietà non si opera applicando semplicemente una norma in maniera pedissequa, sforzandosi di adeguare la realtà a dei principi predeterminati e preconfezionati, semmai è la condotta personale che deve comprendere la realtà e trasformarla in piena responsabilità. Questo legame tra storicità e dimensione sociale riflette, non solo il debito di Bonhoeffer nei confronti dello storicismo tedesco, ma anche, come sottolinea Italo Mancini[41], la fedeltà alla terra di nietzschiana memoria. Conformità alla realtà, inoltre, per Bonhoeffer non significa che la vita responsabile si esaurisca nei confronti dei soli uomini, ma essa estende il suo campo a tutto il mondo, con i suoi oggetti e le sue creature, giacché nella sua visione Dio stabilisce un rapporto stretto con l’intera realtà mediante la sua “Signoria sul mondo”.
Il terzo momento costitutivo della struttura della vita responsabile è definito «dall’autocritica della vita e dell’azione», che rimanda al concetto di libertà progettante nella situazione-limite, infatti Bonhoeffer ritiene che se da un lato le norme che regolano il funzionamento delle istituzioni sono necessarie e vanno rispettate, tuttavia può capitare che le contingenze possano configurare situazioni in cui la legge richiederebbe una sospensione poiché essa non si adegua più alla realtà. In casi come questi si mostra in tutta la sua cogenza l’azione responsabile a seguito dell’analisi del reale: è nella situazione-limite il campo di applicazione più adeguato dell’etica della responsabilità, poiché in tal caso il soggetto deve addossarsi le responsabilità della violazione della legge e, facendo appello alla sua libertà, deve progettare una via d’uscita. Quando la legge preesistente viola le necessità vitali degli uomini, allora la diplomazia cede il passo con senso di responsabilità all’ultima ratio: «In sede politica questa ultima ratio, significa guerra, ma anche inganno o violazione dei patti, motivati da necessità vitale»[42]. Da questo punto di vista responsabilità e libertà si implicano a vicenda perché nella sospensione della legalità l’uomo agisce di sua libera iniziativa, senza cercare rifugio in ideologie. Solo nella libertà etica creativa, nella prassi come invenzione responsabile si realizza il bene all’interno della storia umana, non solo in relazione al ruolo del politico, ma anche a partire dalle situazioni familiari e di convivenza civile, perché colui che esegue gli ordini o li viola rimane inevitabilmente responsabile del proprio operato.
L’ultimo elemento che caratterizza la struttura della vita responsabile è determinato dall’«assunzione di colpa», dal rischio che la sospensione della legge, nella situazione-limite dettata dalla necessità, comporta a causa dell’aleatorietà dell’esito dell’azione responsabile, un rischio al quale Bonhoeffer personalmente non si è sottratto e che l’ha visto totalmente e responsabilmente coinvolto fino al tentativo di congiura ai danni del Führer, purtroppo sventato, circostanza che gli causò la prigionia e l’impiccagione il 24 aprile 1945.
Nella prospettiva etica di Bonhoeffer, dunque, emerge che il campo specifico di attuazione della responsabilità del soggetto non è ristretto alla dimensione della prossimità, ma riguarda l’umanità in generale, perché solo in questo orizzonte «forse comprendiamo, a partire dalla chiamata che Gesù Cristo ci rivolge, le parole di Nietzsche: “Fratelli, non vi consiglio l’amore del prossimo; vi consiglio l’amore dei lontani»[43]. Non è responsabile, racconta Bonhoeffer, e noi oggi lo possiamo sottoscrivere alla luce delle numerose situazioni in cui l’umanità è messa in pericolo, l’atteggiamento di quel pastore che, nell’incombenza della minaccia sterminatrice nazista, non prende posizione solo perché la sua comunità non ne è stata toccata.
Conclusione
Sulla scorta delle suggestioni del pensiero di Paul Ricoeur, altro autore che intrattiene uno strettissimo rapporto con la fenomenologia e con l’ermeneutica, possiamo ritenere che nella distinzione tra una riflessione antropologia, concentrata sulla ricerca filosofica nella totale assenza di un interesse per l’assoluto, e una metafisica, che invece si pone nel solco del recupero dell’assoluto, la nostra prospettiva si è schierata decisamente verso la prima ipotesi di lavoro. In questo orizzonte interpretativo si tratta di elaborare un paradigma antropologico che ponga dei punti fermi per il soggetto postmoderno, affinché si possa operare una svolta positiva sul piano etico, politico, sociale ed economico, evitando che si incappi in qualche forma di crisi di senso intesa come smarrimento per l’uomo moderno, pressato dal nichilismo come anche dal determinismo e dal fondamentalismo contemporaneo.
Nella società attuale, caratterizzata dalla pluralizzazione dei mondi della vita, in realtà, l’eventualità sulla crisi di senso e dello smarrimento è sempre dietro l’angolo, ma essa richiede, a nostro avviso, una lettura sociologica, legata perlopiù alla fruizione della vita quotidiana, come avviene nella fenomenologia sociale di Peter Berger[44], e non, come invece nell’ipotesi di Mario Signore, alla questione della razionalità moderna, all’opposizione, anche sotto rinnovate spoglie, tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, che riduce il margine di riflessione sulla libertà e sulla responsabilità del soggetto. Qui la crisi pare essere, dunque, una crisi epistemologica, propedeutica alla risoluzione di quella etica, e il richiamo a Max Weber è significativo per comprendere l’estrinsecarsi di una certa razionalità non solo nella burocratizzazione delle istituzioni, ma anche in relazione alla religione con l’affermazione della teoria classica della secolarizzazione. In questa prospettiva il disincantamento del mondo costituisce il punto di svolta definitivo verso l’abbandono del mordente religioso come struttura di plausibilità nella società, di un universo simbolico totalizzante, che, una volta venuto meno, con l’avvento del pluralismo, apre ad una crisi senza precedenti: «Una volta che la morale cristiana è divenuta, entro lo spazio contemporaneo, mera rappresentazione, punto di vista, semplice prospettiva, si affaccia il grosso problema della ricostruzione, ovvero della possibilità di una nuova organicità tra intelletto epistemico, politeismo dei valori e vivere associato»[45].
Anche in relazione alla questione religiosa e alla secolarizzazione, l’approccio sociologico della fenomenologia di Berger, ci ricorda che non è necessario il passaggio dalla soluzione della questione epistemologica, che potrebbe anche pendere a favore di una certa razionalità strumentale, a quella assiologica, che, nonostante l’adesione a paradigmi prettamente razionali, potrebbe rimanere profondamente influenzata da motivi religiosi e convivere con i primi all’interno di province differenti di significato e interpretazione, come dimostra il sopravanzare della religione in diverse zone del mondo[46].
La focalizzazione ermeneutica che in queste pagine è stata fatta sulla questione del senso, nella specifica direzione presa dal paradigma del costruttivismo, sia nella sua versione fenomenologica sia in quella radicale, vuole essere un monito per il soggetto a contribuire personalmente alla costruzione della realtà. Si tratta di un invito a creare in piena consapevolezza e senso di responsabilità, con fini specifici che il soggetto si dà in base ai valori che egli assume come sostanziali, sempre all’interno di una determinata comunità, a partire da giudizi che sono il risultato di processi sociali intersoggettivi, mai dipendenti esclusivamente dal soggetto isolato o da precipitati metafisici.
Non solo, il richiamo, che potrebbe apparire contraddittorio con le premesse, al modello di etica della responsabilità di un teologo quale Dietrich Bonhoeffer, il quale all’interno dell’interpretazione non-religiosa del Cristianesimo si era posto l’obiettivo di operare una risemantizzazione dei concetti quali “creazione”, “caduta”, “riconciliazione”, “vita nuova” e “cose ultime”, si potrebbe rivelare, se analizzato attentamente, assolutamente compatibile con un’etica laica, mondana, in cui emerge la rivendicazione dello stadio adulto del soggetto consapevole. Il divenir adulto del soggetto e la maturità del mondo sono fenomeni da accettare con onestà intellettuale, così come altrettanto onestamente va accettato il fatto che «Dio inteso come ipotesi di lavoro (Arbeithypoteses) morale, politica, scientifica è eliminato, superato»[47]. La presa di coscienza della maturità dell’uomo e del mondo coincide con un processo di secolarizzazione, laicizzazione o mondanizzazione, che è al tempo stesso la palese manifestazione della non-religiosità del mondo, del fatto che tutto accade «etsi deus non daretur», un mondo in cui l’assenza di Dio, come anche di istanze metafisiche, sovrastoriche, con la conseguente responsabilizzazione dell’uomo, diventano gli elementi che, se coniugati con il paradigma della costruzione sociale della realtà, possono suggerire l’idea della assoluta autonomia dell’uomo, il quale deve procede con i propri giudizi, pur nel rispetto delle diverse tradizioni culturali e religiose, verso un nuovo modello antropologico tutto da costruire.
Riferimenti bibliografici
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[1] M. Weber, Wissenschaft als Beruf, Politik als Beruf, J. C. B. Mohr, Tübingen, 1992, tr. it. La scienza come professione, La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006.
[2] Cfr. G. Allport, The nature of prejudice, Addison-Wesley Publishing Co., Cambridge (Mass.), 1954, tr. it., La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze, 1973.
[3] P. Jedlowski, Che cosa significa che la realtà sia una “costruzione sociale”?, «Working papers di Sociologia e Scienza Politica», 89, Università della Calabria, 2007.
[4] P.L. Berger, Th. Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday & Co., Garden City, New York, 1966, tr. it. La costruzione sociale della realtà, Bologna, il Mulino, 1969.
[5] Cfr. P.L. Berger, B. Berger, Sociology. A Biographical Approach, Basic Book, New York, 1972, tr. it. Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, il Mulino, Bologna, 1977; P.L. Berger, B. Berger, H. Kellner, Homeless Mind. Modernization and Consciousness, Random House, New York, 1973, pp. 73-75, tr. it. del solo terzo capitolo in La pluralizzazione dei mondi della vita, in L. Sciolla (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Rosenberg & Sellier, Torino, 1983, pp. 169-183; P.L. Berger, H. Kellner, Marriage and the Construction of Reality. An Exercise in the Microsociology of Knowledge, in «Diogenes», 12, 1964, pp. 1-24, tr. it., Il matrimonio e la costruzione sociale della realtà. Un esercizio nella microsociologia della conoscenza, Armando, Roma, 2009.
[6] Cfr. M. Signore, Corporeità e teoria della socialità in Schütz e Merleau-Ponty, in Merleau-Ponty. Filosofia, esistenza, politica, a cura di G. Invitto, Guida, Napoli, 1982,pp. 101-114; M. Signore, Questioni di etica e di filosofia pratica, Milella, Lecce, 1995, pp. 127-145.
[7] M. Signore, Lo sguardo della responsabilità. Politica, economia e tecnica per un antropocentrismo relazionale, Edizioni Studium, Roma, 2006, p. 222.
[8] Ivi, p. 225.
[9] Ivi, p. 232.
[10] P.L. Berger, A. Zijderveld, In Praise of Doubt. How to Have Convinctions Without Becoming a Fanatic, HarperCollins Publishers, New York, 2009, tr. it. Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diventare fanatici, il Mulino, Bologna, 2011.
[11] J. Searle, The Construction of Social Reality, Free Press, New York, 1995, tr. it. La costruzione sociale della realtà, Einaudi, Torino, 2006.
[12] P.L. Berger, A. Zijderveld, Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diventare fanatici, cit., p. 123.
[13] E. von Glasersfeld, Introduzione al costruttivismo radicale, in Die erfundene Wirklichkeit, Piper, München, 1983, tr. it. La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, a cura diP. Watzlawick,Feltrinelli, Milano, 2008, p. 17.
[14] Ivi, p. 23.
[15] J. L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1967, tr. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.
[16] Ivi, p. 14, il corsivo è nostro.
[17] M. Signore, Economia del bisogno ed etica del desiderio, Pensa Multimedia, Lecce, 2009, p. 22.
[18] Cfr. M. Signore, Il concetto di cultura nell’interpretazione della filosofia attuale, in La filosofia come strumento di dialogo tra le culture, Atti del XXXV Congresso Nazionale della SFI, a cura di M. Di Giandomenico, Adda Editore, Bari, 2007, pp. 21-35.
[19] Cfr. M. Signore, a cura di, Allargare gli orizzonti della razionalità. Un nuovo compito del pensiero europeo, Pensa Multimedia, Lecce, 2011.
[20] M. Signore, Lo sguardo della responsabilità, cit., p. 10, il corsivo è nostro.
[21] Ivi, p. 16.
[22] M. Signore, Prolegomeni ad una nuova/antica idea di Welfare, Pensa Multimedia, Lecce, 2011, p. 10.
[23] M. Signore, Lo sguardo della responsabilità, cit., p. 188.
[24] Ivi, p. 11.
[25] Cfr. M. Signore, Lo sguardo della responsabilità, cit., p. 203.
[26] Ivi, p. 217.
[27] P. Watzlawick, Epilogo, in La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, a cura diP. Watzlawick, cit., p. 274.
[28] Ibidem, il corsivo è nostro.
[29] P.L. Berger, A Far Glory. The Quest for Faith in an Age of Credulity, The Free Press, New York, 1992, tr. it. Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, il Mulino, Bologna, 1994.
[30] P.L. Berger, The Heretical Imperative. Contemporary Possibilities of Religious Affirmation, Anchor Press, Doubleday, Garden City, New York, 1979, tr. it., L’imperativo eretico. Possibilità contemporanee di affermazione religiosa, Elle Di Ci, Leumann, 1987.
[31] E. Levinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye, 1961, tr. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 1980
[32] Ivi, p. 177.
[33] E. Levinas, Du sacre au saint: cinq nouvelles lectures talmudiques, Editions de Minuit, Paris, 1977, tr. it.Dal Sacro al Santo. Cinque nuove letture talmudiche, Città nuova, Roma, 1985.
[34] R. Otto, Das Heilige: über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Trewendt und Granier, Breslau, 1920, tr. it. Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano, 1966.
[35] Cfr. D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Halt, Kaiser Verlag, München, 1955, tr. it. Resistenza e Resa, San Paolo, Milano, 1988
[36] E. Levinas, Difficile Liberté, Éditions Albin Michel, Paris, 1963, tr. it. Difficile libertà, Jaka Book, Milano, 2017, p. 31.
[37] Cfr. H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz: eine jüdische Stimme, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1987, tr. it. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 1990.
[38] H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung: Versuch einer Ethik fur die technologische Zivilisation, Insel Verlag, Frankfurt am Mein, 1979, tr. it. Il principio responsabilità, Einaudi, Torino, 2002, p. 41.
[39] D. Bonhoeffer, Ethik, Keiser Verlag, München, 1956, tr. it. Etica, Bompiani, Milano, 1969.
[40] D. Bonhoeffer, Etica, cit., p. 190.
[41] I. Mancini, Bonhoeffer, Vallecchi, Firenze, 1969; Id., Dietrich Bonhoeffer. Un resistente che ha continuato a credere, in «Il Nuovo Leopardi», n. 28 (1988), Quattro venti, Urbino.
[42] D. Bonhoeffer, Etica, cit., p. 202.
[43] Ivi, p. 218.
[44] P.L. Berger, Th. Luckmann, Modernität, Pluralismus und Sinnkrise. Die Orientierung des modernen Menschen, Bertelsmann Stiftung, Gütersloh, 1995, tr. it., Lo smarrimento dell’uomo moderno, il Mulino, Bologna, 2010.
[45] M. Signore, Lo sguardo della responsabilità, cit., p. 13.
[46] Cfr. P. Berger, The Many Altars of Modernity: Toward a Paradigm for Religion in a Pluralistic Age, Walter de Gruyter, Inc., Boston/Berlin, 2014, tr. it. P. Berger, I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo, EMI, Bologna, 2017; Ch.T. Mathewes, An Interview with P.L. Berger, in «The Hedgehog Review», 8, 1-2, (After Secularization), [2006], pp. 152-161, tr. it., P. Berger, Riflessioni sulla religione, a cura di M. Lucivero, Armando Editore, Roma, 2020.
[47] D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa, cit., p. 139.
ML (15/03/2020) per Logoi.ph
Saggio pubblicato su www.logoi.ph ISSN 2420-9775, n. VI, 15, 2020. Clicca qui per leggere sul sito.

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