Famiglia e borghesia, molto più di un’endiadi

Natalia Ginzburg, Famiglia, Einaudi, Torino 2018

Appare fin troppo chiaro il messaggio della Ginzburg alla luce dell’evoluzione storica della cultura italiana occorsi nell’arco di poco più di un decennio dalla pubblicazione di Lessico famigliare (1963). Famiglia e Borghesia sono qualcosa in più di una endiadi; si tratta, piuttosto, della tendenza a rappresentare una stessa realtà mediante storie diverse che si intrecciano, non tanto nei personaggi, ma in una temperie tesa a mettere al centro la riflessione sulle trasformazioni della famiglia borghese tout court. Entrambi i racconti portano all’interno della struttura della famiglia, che fino a qualche anno prima poteva essere costruita e mantenuta attraverso un linguaggio rammemorante, un’aria thomasmanniana, pestifera e decadente, pervasa ovunque di morte, separazione, disperazione e anomia sociale. L’analisi in parallelo dei due racconti mette al centro della riflessione l’epilogo della famiglia borghese: non è tanto l’esito della legge sul divorzio del 1974 a influire negativamente, ma è una solitudine costituiva del tessuto sociale, un’aridità culturale che non imprime nessun colore all’esistenza dei personaggi: non ci sono famiglie tradizionali composte da madre, padre e figli, non ci sono relazioni intime significative, tutti i legami famigliari sono fallimentari, il matrimonio è perlopiù un legame infelice dal quale fuggire appena ne se presenta l’occasione, i rapporti genitoriali appaiono quasi sempre insopportabili, gli adulteri sono all’ordine del giorno, ma non sono nemmeno soddisfacenti e presto si risolvono anche loro in relazioni asfissianti. Quello della Ginzburg è un definitivo congedo da un mondo sempre più frammentato, la trasposizione letteraria della fine delle metanarrazioni moderne, che di lì a due anni avrebbe preso il nome di condizione postmoderna con Lyotard.

ML (05/05/2021)

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