Ci ha lasciati in questa settimana il filosofo Gianni Vattimo, a lungo docente presso l’Università di Torino, ma famoso per aver portato in tutto il mondo una versione molto accattivante, sebbene spesso fraintesa, della teoria della postmodernità, cioè quella che fa specificatamente riferimento al “Pensiero debole”.
In realtà, Il pensiero debole[1] fu un fortunato testo curato dallo stesso Vattimo insieme a Pier Aldo Rovatti nel 1983, opera alla quale avevano partecipato, tra gli altri, anche filosofi come Umberto Eco e Maurizio Ferrari, oltre a sociologi come Franco Crespi e Alessandro Dal Lago, scomparsi entrambi lo scorso anno.
Se proprio vogliamo tracciare un filo rosso tra tutti i diversi e complessi contributi di quel testo, senz’altro si può dire che vi era una decisa presa di coscienza del fatto che dopo la pubblicazione del volume La condizione postmoderna[2] di Francois Lyotard nel 1979, occorreva fare i conti con un nuovo modo di concepire il rapporto con il sapere e il potere nella società contemporanea e, al tempo stesso, bisognava accedere ad un nuovo modo di guardare alle categorie storiografiche.
Non solo, il Pensiero debole, che si poneva in continuità con l’ermeneutica di Hans Georg Gadamer, autore che Vattimo aveva introdotto e diffuso in Italia, non poteva non tener conto, nella sua intenzione di sradicare definitivamente ogni tentativo filosofico di fondazione della realtà «unica, ultima, normativa», della pubblicazione di un importante testo di carattere spiccatamente epistemologico e scientifico, anch’esso, collettaneo, curato da Paul Watzlawick nel 1981, dal titolo La realtà inventata. Contributi al costruttivismo[3].
Insomma, la proposta filosofica di Vattimo, per quanto originale nel suo slogan, s’inseriva perfettamente nella temperie culturale europea degli anni ’70-’80 e provava a riflettere intorno ai numerosi cambiamenti occorsi nelle società occidentali a partire almeno dagli anni ’60 con la decolonizzazione, la fine della Guerra fredda, la tecnologia, l’avvento della società dello spettacolo e della comunicazione, la cui Wirkungsgeschichte (la storia degli effetti) cominciava a manifestarsi.
E la prima vittima di questa rilettura filosofica della realtà fu la classica scansione storiografica degli eventi occorsi in Occidente, infatti alladistinzione tra età antica, medievale, moderna e contemporanea, se ne sostituì un’altra, che vedeva la modernità estendersi fino agli anni ’80, per poi trapassare nella postmodernità.
I tratti della modernità sono molto chiari: essi individuano una serie di eventi e di produzioni materiali che hanno come centro l’Europa e la sua cultura di riferimento, vale a dire l’economia imperialistica. Essa sfrutta, assimila, annienta: è una logica di sopraffazione non solo economica, ma anche culturale, che si dipana a partire dalla rottura di un universalismo unico di carattere religioso e teocratico per far strada a più tentativi di ripristinare universi simbolici totalizzanti di carattere economico e politico.
La modernità è, senza soluzione di continuità, il luogo di questa sopraffazione operata, a ritmi alterni, dai vari Stati-nazione dell’Europa e che produce come frutti l’Imperialismo, la colonizzazione e le ripetute prove di forza tra Stati, comprese la Prima e la Seconda guerra mondiale.
La rivoluzione che avvia la postmodernità tra gli anni ’60 e ’70 è di tipo tecnologico e si concretizza in grandi novità nella fruizione di servizi nel settore dei trasporti, della comunicazione e della produzione industriale. La moltiplicazione dei mezzi e dei canali di comunicazione consente a tutti e a tutte di venire a conoscenza di sistemi culturali differenti da quello che si riteneva l’unico possibile, dando la possibilità a chi si trova al margine della società di esprimersi e comunicare la propria presenza, la propria esistenza.
Questo sfilacciamento dell’universo simbolico totalizzante in una pluralità di sistemi culturali di riferimento determina la rivoluzione e la cifra peculiare della postmodernità. Ciò non vuol dire che il paradigma della modernità sia archiviato, perché resta sempre un modo di agire e strutturare il sapere in modo centralistico e prevaricatorio, eurocentrico, ma convive con le strutture e le tecnologie che permettono la fluidità e che poi determinano la pluralizzazione. Sussiste sempre il tentativo di appropriazione e di controllo dei mezzi di comunicazione e produzione, e tale procedura è evidentemente moderna, ma vi è anche la possibilità di fallare costantemente il sistema centrale e insinuare il germe del pensiero alternativo al limite, l’esperienza estrema del confine.
E così, a differenza della realtà fornita dal pensiero unico, la realtà postmoderna è poliedrica, multiforme, composita e complessa, fatta da interpretazioni diverse e differenti, talvolta opposte, in concorrenza. Tuttavia, i mass media, invece di rendere la storia e la società più trasparente, più chiara, più illuminata e più consapevole di sé, la rendono più complessa, talvolta anche più caotica. È in questo disorientamento, in questa caoticità fluida e complessa che risiede la possibilità dell’emancipazione umana, scriveva Vattimo nel 1989[4], lasciando presagire che quello spazio sarebbe stato occupato dalle minoranze omosessuali, dal femminismo, dalla subculture punk, nere, ecc.
Oggi ci ritroviamo a recitare il requiem per il filosofo del “Pensiero debole”, che molti hanno avversato perché ritenuto un “Pensiero per i deboli”, anche a sinistra, cui Vattimo era in qualche modo legato, ma il suo requiem coincide anche con il requiem per la possibilità delle minoranze di emanciparsi, dal momento che si fanno sempre più strada, a destra come a sinistra, a Occidente come a Oriente, “Pensieri forti”, che sono pensieri moderni, logiche di guerra e di sopraffazione.
Insomma, forse, il “Pensiero debole” e la postmodernità volevano essere tentativi di percorrere sentieri di pace, ma noi non l’abbiamo compreso!
ML (24/09/2023)
[1] G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2010.
[2] F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2010.
[3] P. Watzlawick (a cura di), La realtà inventata, Feltrinelli, Milano 2018.
[4] G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989.
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