Nel solco della riflessione di David Harvey[1], condividiamo l’idea che la svolta postmoderna sia da attribuire ad una crisi nelle categorie dello spazio e del tempo. Del resto, anche mantenendo ferme, sotto certi aspetti, le categorie oggettivo/soggettivo, risulta comunque innegabile che la storia dei cambiamenti sociali debba andar posta in relazione ad un uso ideologicamente orientato dei concetti di spazio e tempo.
Cominciamo dal tempo. È vero, la nozione di tempo rimane una categoria fondante la nostra vita sociale, eppure la sua complessità viene spesso sacrificata e ricondotta alla familiarità attraverso il riferimento a routine quotidiane, che ci immettono in una rassicurante visione ciclica e ripetitiva della nostra esistenza.
A rompere la monotonia di una vita altrimenti identica ci pensa il capitalismo neoliberale, coltivando in uomini e donne l’illusione di una vita liberata grazie alla produzione e alla compulsione al consumo di oggetti dal presunto potere emancipante, in verità feticci ai quali cediamo ogni nostro diritto.
È facile accorgersi, in prima battuta, come sia proprio l’ideologia del consumo a condizionare la nostra idea di tempo. La nostra capacità di scelta inceppa nel determinismo che esige la decisione urgente, vittima delle pressioni di sensazionalistiche réclame, quelle che ci avvertono di non perdere “l’ultima occasione!”, perché non si ripresenterà; quelle che stordiscono la nostra memoria, divenuta cortissima mentre si persuade di vedere “saldi mai visti!”; quelle che ci intimano di non distrarsi di fronte alle catastrofi presenti o imminenti perché “torna il Black Friday”, già ben prima del Black Friday!
Avete mai dialogato con addetti alle vendite presso le grandi distribuzioni? Beh, vivono una vita tristissima, perché per loro, adesso che siamo in ottobre, il Natale è già finito, passato, hanno già fatto esperienza di tutti i prodotti di consumo che dovranno essere piazzati sul mercato, perciò anche loro si sono, così, consumati!
Ma non finisce qui la beffa, perché a questa deterministica spinta al consumo si aggiunge, contemporaneamente, una controtendenza che lascia interdetti, proiettando i cittadini e le cittadine nella dimensione dell’anomia. È la retorica politica che sovrasta e annichilisce ogni processo di emancipazione reale – eccolo, il capitalismo neoliberale – rendendoli strumenti della società dei consumi con richieste di sacrifici che ciclicamente investono di responsabilità uomini e donne pronti a modificare o adattare i propri stili di vita, virandoli, ad esempio, verso prodotti più green al fine di “evitare il peggio” e, scusate se è poco, “salvare le generazioni future”.
Ne esce un paradosso talmente evidente che, proprio per questo, non viene quasi notato!
La compulsione al consumo ci ingabbia nelle dinamiche di vite prive di autonomia, fagocitando quanto non dovremmo essere disposti a barattare: il tempo libero o liberato.
Il punto fondamentale è qui, nel presentarsi di esistenze mai in ozio, perché proprio il tempo libero, liberato dalla necessità s’intende, anelito quasi mitico verso cui incanalare ogni bisogno e aspettativa, è stato definitivamente lottizzato dal capitale, che ci ingabbia nelle dinamiche produttive e «ci spoglia dell’autonomia del nostro tempo mentre rende impossibile ad ampi segmenti della popolazione lasciarsi alle spalle il regno della necessità. In effetti, il segmento più ampio della popolazione lotta faticosamente per avere accesso alle necessità di base, il che significa che ha una capacità e un tempo molto limitati per la libertà di espressione».[2]
Dovremmo ritornare a rileggere o a riscrivere di visioni chimeriche, a sognare città ideali in cui si lavora solo per sei ore al giorno, come in Utopia di Thomas More, e il resto è dedicato all’ozio, allo studio, alla convivialità, alla discussione politica comunitaria, oppure, ancora meno, solo quattro ore al giorno, come nella Città del Sole di Tommaso Campanella e, magari, come per i solani, essere puniti con l’astinenza sessuale in caso di reati contro la comunità!
Ma, purtroppo, non ci resta che constatare, amaramente, che non sappiamo più sognare, perché nell’affannoso affaccendarsi che il neoliberismo capitalistico impone ai nostri corpi, prima che alle nostre menti, noi non riusciamo nemmeno a dormire, presi dall’ansia del dover fare e del dover raggiungere gli obiettivi.
Del resto, con la globalizzazione dei consumi e degli stili di vita, ormai tutto il mondo è paese, e così anche la piccola periferia del mondo, dall’Africa all’Asia, è diventata come New York e anche lì ha vinto il modello capitalistico che un tempo apparteneva solo alla City that never sleeps!
ML e AP (08/10/2023)
[1] D. Harvey, La crisi della modernità, Net, Milano 2002. Cronache anticapitalistiche. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo. Feltrinelli, Milano 2021.
[2] D. Harvey, La crisi della modernità, cit., p. 128.
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[…] sui modi attraverso i quali il capitalismo neoliberale riesce ad imporsi come ideologia dominante, imponendo trame cronologiche che irretiscono i cittadini e le cittadine nelle dinamiche del consumo …, vorremmo provare a vedere cosa è accaduto nel frattempo allo spazio. Eravamo giunti, infatti, […]
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