Questo nostro amore (tossico) per il non-sapere

Accettiamo tutto. Accettiamo la guerra come strumento di pace, l’indifferenza come soluzione ai drammi dell’esistenza. Vogliamo tutto. Vogliamo la libertà assoluta, priva di limiti e responsabilità. Vogliamo la verità, ma senza metterla alla prova, la vogliamo a portata di mano, a portata di click. Cosa si cela dietro l’apparente ingenuità con cui accettiamo informazioni come vere senza passarle al vaglio della critica o alla prova di altri fatti? Cosa si cela dietro lo scadere dell’aspirazione aristotelica alla conoscenza ad ansia che si quieta con una rapida ricerca in Internet di pochi secondi? Cosa nasconde la nostra voglia di custodire un sapere fittizio, spesso confezionato ad arte e propagandato per manipolare il consenso? Perché cediamo sempre più volentieri il piacere di ragionare a Google o all’Intelligenza Artificiale? In poche parole, perché diveniamo complici di chi volontariamente ci inganna? Coltivare la menzogna, il non-sapere, significa coltivare l’illusione che gli effetti delle nostre azioni siano esautorate da ogni responsabilità verso gli altri. Significa alimentare una coscienza cinica che nel disinteresse dei destini altrui trova la sua misera autodifesa…

Nel suo intervento al Festivalfilosofia di Modena divenuto un recente saggio, Peter Sloterdijk (2019) ci ha rammentato che il linguaggio non mira più a illuminare il vero. In tempi di post-verità, esso non mira neanche, più modestamente, a rischiararne una parte, del vero. Né, tantomeno, ci sembra che la comunicazione linguistica mediatica si ponga come strumento finalizzato alla trasmissione di alti valori civici. Tutt’altro.

L’epoca in cui viviamo, consapevolmente o no, ha negato da tempo che la verità sia accessibile, perché giace sepolta sotto le maschere fitte di menzogne, errori, propaganda ideologica, inganni e autoinganni.

Come ci avevano insegnato i grandi retori del passato, non facciamo fatica a riconoscere con Nietzsche che «L’obiezione, il saltare di lato, la gaia diffidenza, il piacere della beffa sono segni di salute: tutto ciò che è assoluto appartiene alla patologia» (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1977, aforisma 154).

Tuttavia, ciò che manca oggi alla tenera abnegazione collettiva con cui ci assoggettiamo ad inganni ed autoinganni retorici è quell’impegno alla demistificazione strutturata nel metodo critico, storico-genealogico che Nietzsche radicava nella tensione filosofica alla ricerca delle radici umane su cui si erge ogni valore imposto surrettiziamente come assoluta verità.

Come dire, siamo tutti sempre più inclini al sospetto, ma, per una pigrizia intellettuale, conclamata a tal punto da risultare patologica, non riusciamo ad elevare il sospetto alla dignità della critica, storicamente fondata.

Così, nella distorsione deliberata dei fatti, il linguaggio può continuare a rappresentare «il mezzo più adatto a celare secondi pensieri e a sedurre i recettori simulando fatti capaci di creare consenso» (P. Sloterdijk, 2019, p. 21).

Il dato nuovo, evidente nello stordimento generale in cui versa l’opinione pubblica, è che nell’ultimo periodo sembra essere cresciuta in modo eclatante anche la richiesta di non-sapere, di non-verità, da parte dei recettori, le masse sempre più sorrette nelle loro opinioni da pre-giudizi radicati, ostentati con arroganza.

Ovviamente, dobbiamo riconoscere come, a partire dal Novecento, abbiamo assistito ad una progressiva sofisticazione dei sistemi d’inganno, orditi dai cosiddetti decisori – delle scelte politiche, economiche, militari ecc. – col supporto di potenti mezzi tecnologici, cui ha fatto da contraltare una quanto mai crescente disposizione delle masse ad essere ingannate. 

La tendenza ad assoggettarsi all’inganno, connettendosi, quindi, con l’altrettanto estrema tendenza dei decisori alla menzogna e alla simulazione, ha oggi assunto caratteri così radicali da renderci incapaci di smascherare l’errore e la manipolazione ideologica. Questo perché mentitori e ingannati appaiono sempre più legati da un patto, in parte conscio e in parte inconscio, resosi necessario al fine di tollerare gli esiti drammatici che incombono sulle nostre esistenze: «Nell’errore di natura ideologica convergono la domanda di illusioni edificanti e l’offerta propagandistica e paternalistica di tali illusioni presentate in modo persuasivo» (P. Sloterdijk, 2019, p. 23).

La coscienza errante, già individuata da Sloterdijk, è in fuga dal sapere per autodifesa. Essa cerca appigli e giustificazioni a fortiori rispetto allo sgretolarsi di ogni sistema morale posto in crisi dagli orrori che ci circondano. Si adatta attraverso mimetismi e compromessi. Si giustifica, perché tutto le va bene, cadendo volentieri in paradossi e artifici retorici, fallacie argomentative e pregiudizi ideologici. Sviluppa il proprio cinismo, pasce la propria insensibilità, custodisce un freddo distacco da un mondo vissuto come favola, perché ricolmo di drammi impensabili ed esistenze in bilico.

Spiegheremmo facilmente, attraverso la connessione di questa duplice tendenza a perpetrare l’inganno e a cadere in esso volontariamente, la smania di integrarsi all’interno di sistemi virtuali a tal punto da scomparire sostituiti da una Intelligenza artificiale; spiegheremmo così, il mimetismo dialettico che formatta il conflitto[1] verbale nei canoni del politicamente corretto;  spiegheremmo così, le giustificazioni retoriche offerteci dalla politica per rendere accettabili – perché necessarie a mantenere ordinata la nostra Belle époque – le crisi, le catastrofi, le discriminazioni, persino le morti orribili dovute alle migrazioni, alle guerre, al terrorismo (P. Sloterdijk, 2019, p. 49).

In una situazione siffatta – costa ammetterlo? – non sappiamo davvero cosa farcene dell’amore per il sapere, e quindi della filosofia. Non aneliamo più alla verità dei greci, ad Aletheia (ἀλήθεια), «la svelatezza, nella quale la velatezza dell’ente deve trasformarsi mediante il filosofare»[2], il filosofare insieme. L’amore-per-il-sapere ci chiederebbe troppo – uno sforzo ermeneutico, una fusione di orizzonti, un contatto reale con l’altro – rispetto al nostro disimpegno relativistico. 

La nostra coscienza nichilista, mentre custodisce il non-sapere, è cinicaEssa accetta con sollievo di potersi mantenere nelle evidenze della menzogna, perché qui può farsi beffa di ogni categoria morale, può sentirsi al sicuro allontanando ogni personale responsabilità. Può accettare l’inaccettabile orrore di guerre, stragi e genocidi. 

Del kinismo antico, della sfrontatezza assunta a metodo critico-cinico, il cinismo attuale ha perduto le tracce. Nella catarsi offerta dall’ennesimo autoinganno, dall’ennesima illusione autosostenuta per pensarsi fatalisticamente al riparo da responsabilità, il presupposto tacitamente accolto è la pre-comprensione di una assoluta incomunicabilità tra i parlanti, che ci rende insensibili e indisponibili a sentire i drammi altrui come nostri. Se la ricerca del sapere batte in ritirata, allora ogni dialogo, impostato dentro il gioco di specchi delle menzogne, è persino superfluo e non fa altro che coltivare, narcisisticamente, un amore tossico, quello per la non-verità

AP (31/10/2023) per Agorasofia


[1] Cfr. Miguel Benasayag e Angélique Del Rey, Elogio del conflittoFeltrinelli, Milano, 2008, p. 79.

[2] M. Heidegger, L’essenza della veritàa cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1997, «Considerazioni introduttive», p. 36.

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