Solitamente in Italia quando i giornali e i politici non parlano del coinvolgimento del nostro Paese in qualche guerra oppure della spesa militare necessaria per mettere in “sicurezza” la popolazione, si occupano della scuola pubblica sia per portare nella pubblica piazza il suo fallimento educativo sia per proporre audaci programmi di riforma che, in fondo, non smuovono mai niente concretamente, bensì contribuiscono a smantellare tutto l’impianto della “pubblica istruzione”, scomparso anche dal nome del Ministero che dovrebbe occuparsene.
Tuttavia, anche senza distrarci totalmente dai venti di guerra che ci vedono pienamente coinvolti nei conflitti armati in corso, anzi, proprio per provare a capire come mai si sia giunti al nostro coinvolgimento, vorremmo cercare di comprendere se la scuola pubblica statale italiana sia responsabile del generale disimpegno civile e del depauperamento ideologico ampiamente diffuso.
Ora, che la scuola debba essere promotrice di valori positivi; che la scuola debba educare alla pace e alla convivenza civile; che la scuola debba essere al servizio delle studentesse e degli studenti e non il contrario, sono, purtroppo, della vuote formule di circostanza che possono servire al massimo, maliziosamente, ad irretire chi non conosce veramente come funziona la scuola e a guadagnarsi qualche applauso da parte di una claque abbastanza distratta in relazione ai reali processi che si consumano nelle nostre istituzioni della formazione.
Va detto, innanzitutto, che anche la semplice volontà da parte dei e delle docenti di presentare “valori positivi” oppure di “educare alla pace e alla convivenza civile” nella scuola pubblica si sottopone ad un vaglio critico, molto spesso polemico da parte di colleghi, colleghe, Dirigenti scolastici e genitori, che tende a bollare tali iniziative come “operazioni politiche”, talvolta anche pericolose e rivoluzionarie.
Il fatto è che o ci si limita ad affermare che esistono “valori negativi”, magari nell’ambito di generici progetti sulla legalità, e che “la guerra ci fa schifo”, accanto ad una diffusa presa di posizione che parte dalla scuola materna e giunge fino ai palcoscenici di Miss Italia sulla necessità della “pace nel mondo”, oppure si prova a suggerire modalità e forme concrete per buttare fuori dalla storia la guerra. Si potrebbe, ad esempio, proporre di evitare che i militari e le forze armate mettano piede nelle scuole; si potrebbe suggerire di far uscire l’Italia dalla NATO, un’alleanza militare a direzione esclusivamente nordamericana, che finora è sempre intervenuta non a scopo difensivo, ma destabilizzando ampie aree del globo con inevitabili ripercussioni sulla nostra popolazione, che si trova costretta, dopo, a subire limitazioni alla propria libertà a causa delle misure di sicurezza per il diffuso pericolo di terrorismo, che è un vecchio e comodo metodo per governare meglio i cittadini e le cittadine.
Ecco, si potrebbe fare tutto questo, concretamente, ad esempio, per cominciare a porre le basi per una convivenza civile all’insegna dei “valori positivi”. Tuttavia, in effetti, il rischio di esporsi all’accusa di “fare politica” nella scuola è alto, perché, di fatto, si tratta di posizioni che hanno a che fare con modalità di pensare un modo diverso da quello che la “politica” attuale ha predisposto per stare insieme e questo al giorno d’oggi diventa un problema per chi si trova all’interno delle istituzioni. Anche la mera possibilità da parte dei dipendenti pubblici di criticare mediante social networks le istituzioni di cui fanno parte è diventato sanzionabile dal luglio 2023, come mostra, chiaramente con preoccupazione, il maestro e giornalista Alex Corlazzoli su Il Fatto Quotidiano: «Addio alla critica. Ora, ad esempio, chi in tempo di Covid si è permesso di mostrare sui social le valanghe di mascherine inutilizzate rischia di essere punito».
Non dimentichiamo, dunque, che la scuola è una “istituzione” e, benché abbia in carico il compito più arduo della nostra società, cioè la formazione delle nuove generazioni, in quanto tale, essa rassomiglia sempre più ad un apparato burocratico, in cui le comunità scolastiche, i collegi dei docenti, i consigli d’istituto, i comitati di base, le assemblee sindacali, insomma tutto ciò che appariva come il frutto di iniziative discusse e condivise dal basso, viene definitivamente archiviato.
E, allora, se la scuola pubblica, statale e pluralistica è pensata dal “potere” e intesa da chi ci lavora, perlopiù, come apparato burocratico, essa non può fungere da “corpo intermedio”, cioè da struttura in grado di generare “valori” mentre cerca di mediare tra la società civile e istituzioni. È vero, in sostanza, che la scuola non può e non deve fare da tappabuchi nel generare valori e sostenere progetti politici, giacché per quello dovrebbero esserci i luoghi tradizionali, vale a dire la famiglia, le associazioni, le comunità di quartiere, i partiti, le comunità religiose, e magari aprire la scuola al dibattito che, nella misura in cui è pluralistico, è eminentemente politico.
È evidente, dunque, che l’assenza di dibattito nella scuola sia tra gli studenti e le studentesse sia tra i/le docenti, la mera burocratizzazione dei luoghi della formazione, ridotti a certificatori di competenze decise altrove e funzionali esclusivamente al fantomatico “mondo del lavoro”, è il risultato della mancata produzione di valori nei corpi intermedi, è il frutto di un totale disinvestimento nella politica, sia quella dei progetti di convivenza civile marcatamente partigiani sia quella delle discussione e della condivisione di tali progetti al fine di rendere la convivenza possibile.
Il fatto che le famiglie siano perlopiù assenti e disgregate, che le parrocchie siano vuote, che i partiti siano fuori dalla portata dei giovani e che le associazioni, insieme ai sindacati e al volontariato sociale, siano un retaggio del passato è il sintomo di un deleterio depauperamento ideologico da parte degli adulti, circostanza che ha reso i soggetti sempre meno politici, lasciando ad altri e dislocando altrove il compito di architettare per la società civile gli spazi e i modi della convivenza.
Lavorare nei corpi intermedi, riappropriarsi degli spazi della produzione di valori e dei “progetti politici” da parte degli adulti è il primo passo verso la possibilità di rendere la scuola un luogo di condivisione per i più giovani. Se non operiamo in tal senso saremo ancora a lungo destinati ad assistere nelle scuole ad assemblee d’istituto organizzate da docenti, se non proprio destinate al karaoke oppure a jam session e freestyle battle.
ML (19/11/2023)
