Quello di Pierluigi Battista è il racconto, a tratti commovente, di una storia maledettamente italiana, che ripercorre le tappe del dissidio, talvolta violento, tra due generazioni, quella degli anni ’20-’30, in cui si era tutti fascisti, e quella degli anni ’60-’70, in cui si era tutti comunisti. Tuttavia, il vero guaio è che queste due generazioni si trovavano in un rapporto strettissimo, quello idealizzato per antonomasia, già difficile di per sé, di padre/figlio.
Nella famiglia di Battista, come nella maggior parte delle famiglie benestanti italiane si è consumato nel dopoguerra un tragico conflitto ideologico tra il fascismo della prima ora, intriso di valori borghesi, condito con massicce dosi di retorica, nazionalismo, maschilismo, vitalismo, e un comunismo, altrettanto acerbo e disordinato, delle figlie e dei figli cresciuti nei migliori licei del nostro paese, infarcito di risentimento manicheo e violenza verbale, ben presto poi abbandonato dagli stessi, una volta diventati adulti, per passare alla più comoda e moderata posizione democristiana.
Negli anfratti di questa idiosincrasia generazionale ciò che Battista ha smarrito è sicuramente il senso del legame parentale, tuttavia il tentativo di mettere in scena la nostalgia per recuperare un rapporto ormai perduto con il padre è ben riuscito sotto il profilo prettamente letterario. Ad ogni modo, a latere rispetto al racconto autobiografico, non devono sfuggire alcune considerazioni storiografiche importante per inquadrare il fenomeno: in primo luogo, non deve assolutamente passare la dissociazione tra il fascismo e il nazismo, come se l’antisemitismo e la violenza gratuita appartenessero solo al secondo e non anche al primo, giacché il fascismo si crogiolava in una retorica razzista e prevaricatrice. In secondo luogo, emerge nettamente dal racconto di Battista, in tutta la sua vehemenza, quel travaso dei valori borghesi che passa direttamente nel fascismo, nel tentativo urgente, dettato dall’incombenza dell’ideologia sovietica, di prendere le distanze dal “culturame” comunista.
Rimane, alla fine, un disarmante interrogativo sulla direzione che questo attuale depauperamento ideologico, perpetrato soprattutto ai danni dei più giovani e che tende a prendere le distanze tanto dal fascismo quanto dal comunismo, potrebbe imprimere al futuro della politica.
Pierluigi Battista, Mio padre era fascista, Mondadori, Milano 2016.
ML (23/03/2019)
