Il dialogo immaginario tra Immanuel Kant e Benjamin Constant ci restituisce uno dei più interessanti dibattiti etici della storia dell’umanità. La menzogna a fin di bene si presenta in tutta la sua drammaticità già nella Bibbia, poi l’affronta Agostino, per arrivare in qualche modo a toccare l’illuminismo moderno e proseguire oltre, fino a lambire vette molto alte nella cinematografia con il dilemma del Decalogo 8 del regista Kieslowski. Se Kant rifiuta categoricamente che si possa pronunciare una menzogna a fin di bene, perché renderebbe impossibile la fondazione della società e afferma che «Dire la verità è un dovere assoluto», per Constant è vero il contrario, cioè che dire sempre la verità minerebbe alla base qualsiasi consorzio umano e, quindi, sostiene la tesi secondo la quale il dovere alla verità è tale solo nei confronti di chi ne ha diritto. Con ciò, tuttavia, non risulta ancora sciolto il problema della possibilità dal soggetto di percepire effettivamente la verità e quello, riguardante sempre il soggetto nella ineludibile dimensione interpersonale, di potere e riuscire a dire la verità. Il punto è, tuttavia, che i due illuministi sono ancora alle prese con una sola Veritas e un solo Verbum e quindi essi sono in grado di fondare solo un’etica dei principi, una deontologia. Occorrerebbe, invece, soprattutto per i tempi che corrono, un’etica della responsabilità che, attraverso gli strumenti della filosofia analitica e della decostruzione postmoderna, ad esempio, consideri la narrazione come attestazione costruttiva del soggetto, al di là del vero e del falso, e su quella esprimere considerazioni, prendere posizione in relazione alla sua compatibilità con l’edificazione di un futuro compatibile con la sopravvivenza di un’umanità pacifica sulla Terra.
ML (03/11/2010) per Agorasofia
