Se non ammalia con le favole, di solito Luis Sepulveda, autore cileno – quindi fuori dalle grazie dei suprematisti e colonialisti europei palesatisi negli ultimi giorni – commuove con il romanzo storico, quello appassionato, vissuto in prima persona in quella parte del mondo in cui le ideologie e i regimi fascisti hanno dato il peggio ben oltre la fine delle dittature che abbiamo prodotto e conosciuto nel nostro vecchio continente.
La fine della storia è un titolo altisonante per un romanzo, che, tuttavia, non è privo di richiami al suo omonimo saggio, opera ponderosa e pretenziosa di Francis Fukuyama, sia nello sguardo dal sapore postmoderno e disilluso con cui si accosta alle ideologie moderne sia per il riferimento all’ultimo uomo, quel carnefice cosacco che sconta gli ultimi giorni in carcere, in attesa, magari, di un bollettino medico che decreti l’incompatibilità delle sue condizioni di salute con la detenzione penitenziaria (sic!).
La storia, quella mondiale, da Mosca a Santiago del Cile, passando da Tolmezzo e Monaco, è sempre la stessa, dominata dalla violenza umana, preda della solita spirale di vendetta capace di autoalimentarsi nonostante e al di là di armistizi, amnistie e trattati di pace. Ed è una storia che attraversa la Russia sovietica di Trotsky, la Germania nazista di Hitler e poi giunge fino al Cile di Allende e Pinochet e poi si ripete ancora e ancora, instancabilmente, ma con personaggi diversi.
Il finale, invece, spesso non obbedisce a schemi e progetti umani e, talvolta, giunge inaspettata, magari a causa dell’ironia della natura. Essa ci mette il suo carico e, in barba a tutti i tentativi di addomesticamento, si rivela efferata e incontrollata, alimentando sin dall’episodio del 1755 a Lisbona vacue dispute filosofiche, mentre l’uomo, impotente e sempre curioso, assiste davanti al maxischermo alla catastrofe che divora anche se stesso.
Luis Sepulveda, La fine della storia, Guanda, Milano 2016.
ML (23/03/2025) per Agorasofia
