Viviamo il tempo degli oggetti. In questi tempi disperati, le urla di dolore provenienti dalle vicine guerre continuano ad essere sovrastate da jingle rassicuranti, cinicamente offerti dalla luccicante Società dei consumi
L’indagine condotta da Jean Baudrillard ne La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture (1970) verte intorno ad una distinzione classica del pensiero filosofico: quella tra oggetto e soggetto, tra non-umano e umano. Ecco, nella società dei consumi il non-umano è divenuto il fine, il modello verso cui tendere. Tutti i suoi miti e le sue strutture hanno lo scopo di irretirci all’interno di questo modello.
Gli oggetti che Baudrillard pone al centro della Società dei consumi, le cose che consumiamo in modo definitivo già a partire dal loro acquisto, sono segni di un codice teso a fissare vecchie e nuove differenze e segregazioni sociali. In quanto tali, gli oggetti/segni non soddisfano più – rappresentano il simulacro della felicità agognata, non la felicità. E così, il bisogno–desiderio del consumo, fondato sul riscatto che esso offrirebbe a piccole rate mensili e sulla differenza che trasmetterebbe magicamente attraverso il possesso di oggetti/segni, è destinato a risorgere, allontanando indefinitamente ogni possibile godimento.
Questo risorgere del desiderio coincide con la necessità di disfarsi degli oggetti, distruggerli: «La società dei consumi per essere ha bisogno dei suoi oggetti e più precisamente ha bisogno di distruggerli» (p. 34). Il sottile meccanismo psicologico sotteso a questo imperativo svela che «Solo nella distruzione gli oggetti sono là per eccesso, e testimoniano, nella loro scomparsa, la ricchezza» (p. 34). La società dei consumi è, quindi, una società dell’usa e getta. Essa è così pervasiva da traslarsi nelle relazioni umane, divenute il palcoscenico su cui ostentare le differenze acquisite attraverso gli oggetti.
L’abitante della società dei consumi è divenuto opaco, proprio come gli oggetti di cui assume le caratteristiche. Refrattario ai discorsi morali, accetta che ogni negozio gli venda un farmaco, un anestetico per sopportare il dolore di non riuscire più a entrare davvero in rapporto con gli altri. «L’oggetto di consumo isola. La sfera privata è senza negatività concreta, perché essa si sofferma sui suoi oggetti, che non ne hanno» (p. 86).
«L’uomo-consumatore si considera investito del dovere di gioire» (p. 79). Su questo non nutre alcun dubbio. Le più alte istituzioni politiche, del resto, non smettono di ricordargli che il benessere della società dipende dalla dinamicità dei consumi. Dalla sua capacità di sostenerli. Egli, nel consumo, è il cittadino modello, per cui «Ha il dovere di essere felice, innamorato, adulante/adulato, seducente/sedotto, impegnato, euforico e dinamico» (p. 79). In questo trionfo di positività ostentata, che si scandalizza del negativo e lo nasconde dietro i filtri che levigano le asperità del tempo, il consumatore ha assunto, oggi in modo più evidente, la postura della resilienza. Attraverso il rito dell’acquisto di cose, ovvero, ai tempi della virtualità dispiegata, di noncose – scaricate, consumate in rete – l’homo consumens rinnova il disperato ottimismo di una felicità vicina, alla quale adeguarsi grazie al prossimo acquisto, al prossimo click. Il consumatore-resiliente non pensa al cambiamento, attende che gli venga proposto in saldo con la prossima offerta.
Per uscire dalle nostre vite costrette nella servitù volontaria al consumo occorrerebbe ricordare che gli oggetti (le cose o le noncose che consumiamo) non pensano (siamo noi che pensiamo); che gli oggetti sono semplici strumenti e che, in ultima analisi, siamo noi a dire se essi sono utili, inutili, superflui o necessari. Eppure, non lo facciamo. Probabilmente ciò accade perché «Gli eroi del consumismo sono stanchi» (p. 222), inebriati e inebetiti dall’affannosa ricerca di una gioiosa conformità al sistema…
Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture , il Mulino, Bologna 1970.
AP (30/03/2025) per Agorasofia
