Louis Althusser, L’unica tradizione materialista: Spinoza, CUEM, Milano 2012

La ripresa del pensiero di Spinoza durante gli anni ’60-’70 rappresentò per molti marxisti il punto di svolta e il correttivo metodologico della lettura della concezione materialistica della storia, arenatasi ormai in una deriva sterile dal punto di vista filosofico e aberrante sul piano politico. All’interno di questo generale ripensamento del marxismo, lo spontaneismo, il nominalismo e il materialismo di Baruch Spinoza furono gli elementi fondamentali per tentare l’abbandono del procedimento dialettico assunto nella lettura delle dinamiche della storia, procedura che aveva condotto alla trasformazione del materialismo dialettico (DIAMAT) in una ideologia di potere. Althusser, già protagonista di un ripensamento tutto interno al pensiero dello stesso Marx, si trova nel pieno di questa corrente marxista e in questo testo si sofferma sulla vocazione antimetafisica, antifondazionalista e antiumanista di Spinoza, un autore del ‘600 giudicato assolutamente estraneo a qualsiasi tentativo moderno di fondazione trascendente o trascendentale della Verità e/o dei processi storici. Secondo Althusser il pensiero di Spinoza permette di concepire la conoscenza come processo di produzione, e non di riproduzione, valorizzando l’autonomia e la spontaneità del soggetto creativo. Il materialismo di Spinoza non porta con sé, dunque, la presunta scientificità e la teleologia, ma si presenta come aleatorio e conduce la storia verso scenari inesplorati e imprevedibili, liberando la mente e i corpi dei soggetti politici, impegnandoli nella costruzione fattuale della realtà. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (02/12/2013) per Agorasofia
Kwame Anthony Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei, Laterza Bari-Roma 2006

Lo svolgersi dell’argomentazione di Appiah sul cosmopolitismo parte da un’interessante analisi semantica e concettuale dei termini da adottare per spiegare in che modo diventa necessaria l’etica nell’epoca attuale. Il termine globalizzazione è fuori gioco perché rimanda ad una tesi economica legata perlopiù ad una strategia di mercato; anche multiculturalismo risulta pregiudicato dalle politiche legate alla gestione delle differenze culturali in tutto il Nord America; pertanto l’argomentazione sarà svolta sotto l’insegna del cosmopolitismo, termine di per sé non originale, infatti è evidente il sostanziale debito kantiano, ma che si presta bene ad una risemantizzazione alla luce della consapevolezza del pluralismo postmoderno. Contro lo scetticismo e il relativismo morale degli antropologi, opzione che egli riconduce non senza forzature al positivismo logico di tradizione analitica, e contro l’universalismo fondamentalista della verità forte, Appiah propone un atteggiamento morale fondato sulla tolleranza, sulla presa d’atto del pluralismo culturale come ricchezza e sul principio del fallibilismo, qualcosa di molto vicino alla proposta teoretica del pensiero debole. Con questi tratti, dunque, il cosmopolitismo di Appiah, che ammonisce dalle insidie del linguaggio e tenta di superarle, valorizza enormemente il ruolo della conversazione, del dialogo, dello scambio culturale che genera ibridazioni e métissage. Il volume si presenta con uno stile molto narrativo, denso di esperienze cosmopolite, tipiche di un intellettuale vissuto al confine tra la cultura africana e quella americana, strategia che, di fatto, ne rende piacevole la lettura, anche se probabilmente sarebbe stato più proficuo, all’occhio del lettore continentale, qualche approfondimento specifico sull’opzione dell’etica cosmopolita che ancora stenta ad affermarsi. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (23/09/2016) per Agorasofia
Philippe Ariés, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano 1998.

Gli articoli raccolti in questo volume non sono che una sintesi del lavoro che lo storico francese ha condotto per molti anni sul tema della morte, contribuendo a far rinascere un certo interesse per il fenomeno dal punto di vista storico e antropologico. L’analisi di Ariès, che utilizza fonti non appartenenti alla cultura ufficiale, giunge ad individuare dei macrocambiamenti nella storia della rappresentazione della morte in Occidente, passando per un periodo di massima familiarità con i deceduti durante il Medioevo ad un momento di maggiore introspezione, caratterizzato dall’immaginario del giudizio soggettivo, per passare alla massima esaltazione della morte eroica con accezione quasi erotica durante il Romanticismo e finire con la tabuizzazione del fenomeno nel Novecento. Al di là delle macrocategorie storiche, l’interesse di Ariès per la morte è stato fondamentale per dare ulteriori contributi alla determinazione dell’autopercezione identitaria del soggetto nel corso dei secoli, evidenziando come talvolta non sia la cultura ufficiale, con le leggi nazionali, le bolle papali e i trattati filosofici, a modificare in maniera sostanziale le abitudini degli uomini, ma qualcosa che agisce ad un livello più sottile e profondo, che egli definisce l’inconscio collettivo e che potremmo anche definire il sottobosco della tradizione popolare. Probabilmente l’unica pecca di Ariès sta nell’aver dato credito, come gran parte del pensiero europeo formatosi tra gli anni ’20 e ’40, all’idea che l’Occidente stesse tramontando, ritenendo che la proibizione della morte non fosse che un segno della decadenza dei tempi e non accorgersi, invece, dell’incedere di una forma tutta postmoderna d’individualizzazione della vita, cui fa da corollario anche la definizione postuma dell’identità tramite la personalizzazione della propria morte. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (08/04/2014) per Agorasofia
M. Augé, Tra i confini. Città, luoghi, interazioni, Mondadori, Milano 2007

Anche in questo caso, come in molte altre pubblicazioni, l’indagine di Marc Augé si concentra sull’analisi dei non-luoghi, cioè di quei luoghi spersonalizzanti, difettosi di sociabilità e solidarietà, in cui non si condensano le identità, ma ci si ammassa solo per ragioni consumistiche. Gran parte della storia dell’urbanistica del Novecento, in realtà, è stata dominata dalla creazione di non-luoghi, anche come conseguenza del fenomeno della globalizzazione, che tende ad omologare i soggetti, ad annullare le differenze culturali e a segnare una demarcazione molto più netta tra gli attori economici in base al loro potere d’acquisto, tutti miracoli del capitalismo. Quella che negli anni ’80 è stata rubricata come globalizzazione ha generato, in sostanza, da un lato, una forza centripeta che richiama prepotentemente i soggetti all’interno dei “centri” commerciali, i non-luoghi per eccellenza, ma dall’altro, agisce anche una forza centrifuga che spinge la popolazione ad abbandonare i centri delle città e ad ammassarsi nelle periferie, alla ricerca di luoghi identitari, come ghetti, banlieues e Gated Communities. Quest’ultimo fenomeno non è che l’apoteosi dell’esclusione sociale, la conferma più evidente del fatto che le politiche statali hanno smesso di occuparsi di inclusione e, abbandonati alle logiche neoliberiste, hanno dimenticato che le disuguaglianze stavano montando fino ad esplodere con violenza. In questo libello snello, ma profondo, l’analisi dei non-luoghi permette di leggere l’epoca attuale sotto la categoria di surmodernità, definita attraverso tre figure che segnano un “eccesso”: di tempo, di spazio e di individualismo. E così assistiamo perlopiù inermi a processi contrastanti per cui ad alcuni è possibile varcare serenamente i confini nazionali per viaggiare e trasferire capitali, mentre ad altri ciò viene costantemente impedito mediante la costruzione di nuove frontiere presidiate da gente in armi, da esercito, polizia privata o bande criminali. Eppure questi ultimi si beano della vita libera degli altri, anelando continuamente ad una serenità che finirà per metterli in pericolo. Ecco che Marc Augé giunge a sottolineare un aspetto fondamentale per i nostri tempi: oggi non siamo affatto alle prese con crisi di identità collettiva, per cui c’è bisogno di chiudersi e proteggersi con dispositivi securitari e stati di eccezione in preda a continui condizioni di emergenza, ma siamo di fronte ad una crisi dello spazio e ad una crisi di alterità, circostanze che consentono alle popolazioni, ancora una volta, di marcare le differenze e seminare morte con l’illusione di sentirsi al sicuro…come se la catena dell’odio non fosse alimentata dalla sete di vendetta, che prima o poi si abbatterà su tutti gli esseri umani con una violenza inaudita, l’ultima, la definitiva. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (11/12/2016) per Agorasofia
Honoré de Balzac, Fisiologia del matrimonio, Elliot, Roma 2016.

Quando nel 1829 venne pubblicata la Fisiologia del matrimonio. Meditazioni di filosofia eclettica sulla felicità e la infelicità coniugale, Balzac aveva appena 30 anni e, nonostante avesse già avuto diverse avventure amorose con donne dei salotti parigini, in realtà non conosceva ancora i meccanismi del matrimonio, infatti si sposò solo nel 1850, poco prima di morire. L’opera provocò enorme scandalo a causa del modo in cui veniva trattata la donna, per cui fu censurata. Nella ripartizione del corpus di 137 opere della Commedia umana, diviso in tre grandi categorie, vale a dire gli “studi analitici”, gli “studi filosofici” e gli “studi di costume”, la Fisiologia del matrimonio si situa nella prima parte, sebbene ci dica molto dei costumi della Francia tra Settecento e Ottocento. L’opera di Balzac si premura di dare indicazioni agli uomini per affrontare il matrimonio e per gestire le paturnie della donna, che, dal momento in cui diventa moglie, si trasformerebbe, in sostanza, in un’astuta arpia, interessata a ricavare quanti più benefici possibili dall’unione coniugale oppure a stuzzicare altri uomini per naturale disposizione alla provocazione e alla “minotaurizzazione” (cornificazione) dei predestinati. Il tono è senz’altro ironico, ma vi è anche una certa profondità nel sondare i meandri dell’unione coniugale, da cui, tuttavia, il matrimonio non ne esce affatto rinforzato, anzi sembra rappresentato come una gabbia per l’uomo, una sorta di «morale eterna» che irretisce il piacere e anche l’amore. La vena particolarmente pessimistica nei confronti della fedeltà della donna pervade tutta l’opera, così come emerge una naturale disposizione femminile al sotterfugio, alla tattica finalizzata all’imbroglio e all’evitamento delle relazione sessuali, ma solo quando si tratta di soddisfare il marito. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (18/03/2021) per Agorasofia
Pierluigi Battista, Mio padre era fascista, Mondadori, Milano 2016.

Quello di Pierluigi Battista è il racconto, a tratti commovente, di una storia maledettamente italiana, che ripercorre le tappe del dissidio, talvolta violento, tra due generazioni, quella degli anni ’20-’30, in cui si era tutti fascisti, e quella degli anni ’60-’70, in cui si era tutti comunisti. Tuttavia, il vero guaio è che queste due generazioni si trovavano in un rapporto strettissimo, quello idealizzato per antonomasia, già difficile di per sé, di padre/figlio. Nella famiglia di Battista, come nella maggior parte delle famiglie benestanti italiane si è consumato nel dopoguerra un tragico conflitto ideologico tra il fascismo della prima ora, intriso di valori borghesi, condito con massicce dosi di retorica, nazionalismo, maschilismo, vitalismo, e un comunismo, altrettanto acerbo e disordinato, delle figlie e dei figli cresciuti nei migliori licei del nostro paese, infarcito di risentimento manicheo e violenza verbale, ben presto poi abbandonato dagli stessi, una volta diventati adulti, per passare alla più comoda e moderata posizione democristiana. Negli anfratti di questa idiosincrasia generazionale ciò che Battista ha smarrito è sicuramente il senso del legame parentale, tuttavia il tentativo di mettere in scena la nostalgia per recuperare un rapporto ormai perduto con il padre è ben riuscito sotto il profilo prettamente letterario. Ad ogni modo, a latere rispetto al racconto autobiografico, non devono sfuggire alcune considerazioni storiografiche importante per inquadrare il fenomeno: in primo luogo, non deve assolutamente passare la dissociazione tra il fascismo e il nazismo, come se l’antisemitismo e la violenza gratuita appartenessero solo al secondo e non anche al primo, giacché il fascismo si crogiolava in una retorica razzista e prevaricatrice. In secondo luogo, emerge nettamente dal racconto di Battista, in tutta la sua vehemenza, quel travaso dei valori borghesi che passa direttamente nel fascismo, nel tentativo urgente, dettato dall’incombenza dell’ideologia sovietica, di prendere le distanze dal “culturame” comunista. Rimane, alla fine, un disarmante interrogativo sulla direzione che questo attuale depauperamento ideologico, perpetrato soprattutto ai danni dei più giovani e che tende a prendere le distanze tanto dal fascismo quanto dal comunismo, potrebbe imprimere al futuro della politica. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (23/03/2019) per Agorasofia
Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture , il Mulino, Bologna 1970

Viviamo il tempo degli oggetti. In questi tempi disperati, le urla di dolore provenienti dalle vicine guerre continuano ad essere sovrastate da jingle rassicuranti, cinicamente offerti dalla luccicante Società dei consumi.
L’indagine condotta da Jean Baudrillard ne La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture (1970) verte intorno ad una distinzione classica del pensiero filosofico: quella tra oggetto e soggetto, tra non-umano e umano. Ecco, nella società dei consumi il non-umano è divenuto il fine, il modello verso cui tendere. Tutti i suoi miti e le sue strutture hanno lo scopo di irretirci all’interno di questo modello. Gli oggetti che Baudrillard pone al centro della Società dei consumi, le cose che consumiamo in modo definitivo già a partire dal loro acquisto, sono segni di un codice teso a fissare vecchie e nuove differenze e segregazioni sociali. In quanto tali, gli oggetti/segni non soddisfano più – rappresentano il simulacro della felicità agognata, non la felicità. E così, il bisogno–desiderio del consumo, fondato sul riscatto che esso offrirebbe a piccole rate mensili e sulla differenza che trasmetterebbe magicamente attraverso il possesso di oggetti/segni, è destinato a risorgere, allontanando indefinitamente ogni possibile godimento. Questo risorgere del desiderio coincide con la necessità di disfarsi degli oggetti, distruggerli: «La società dei consumi per essere ha bisogno dei suoi oggetti e più precisamente ha bisogno di distruggerli» (p. 34). Il sottile meccanismo psicologico sotteso a questo imperativo svela che «Solo nella distruzione gli oggetti sono là per eccesso, e testimoniano, nella loro scomparsa, la ricchezza» (p. 34). La società dei consumi è, quindi, una società dell’usa e getta. Essa è così pervasiva da traslarsi nelle relazioni umane, divenute il palcoscenico su cui ostentare le differenze acquisite attraverso gli oggetti. L’abitante della società dei consumi è divenuto opaco, proprio come gli oggetti di cui assume le caratteristiche. Refrattario ai discorsi morali, accetta che ogni negozio gli venda un farmaco, un anestetico per sopportare il dolore di non riuscire più a entrare davvero in rapporto con gli altri. «L’oggetto di consumo isola. La sfera privata è senza negatività concreta, perché essa si sofferma sui suoi oggetti, che non ne hanno» (p. 86). «L’uomo-consumatore si considera investito del dovere di gioire» (p. 79). Su questo non nutre alcun dubbio. Le più alte istituzioni politiche, del resto, non smettono di ricordargli che il benessere della società dipende dalla dinamicità dei consumi. Dalla sua capacità di sostenerli. Egli, nel consumo, è il cittadino modello, per cui «Ha il dovere di essere felice, innamorato, adulante/adulato, seducente/sedotto, impegnato, euforico e dinamico» (p. 79). In questo trionfo di positività ostentata, che si scandalizza del negativo e lo nasconde dietro i filtri che levigano le asperità del tempo, il consumatore ha assunto, oggi in modo più evidente, la postura della resilienza. Attraverso il rito dell’acquisto di cose, ovvero, ai tempi della virtualità dispiegata, di noncose – scaricate, consumate in rete – l’homo consumens rinnova il disperato ottimismo di una felicità vicina, alla quale adeguarsi grazie al prossimo acquisto, al prossimo click. Il consumatore-resiliente non pensa al cambiamento, attende che gli venga proposto in saldo con la prossima offerta. Per uscire dalle nostre vite costrette nella servitù volontaria al consumo occorrerebbe ricordare che gli oggetti (le cose o le noncose che consumiamo) non pensano (siamo noi che pensiamo); che gli oggetti sono semplici strumenti e che, in ultima analisi, siamo noi a dire se essi sono utili, inutili, superflui o necessari. Eppure, non lo facciamo. Probabilmente ciò accade perché «Gli eroi del consumismo sono stanchi» (p. 222), inebriati e inebetiti dall’affannosa ricerca di una gioiosa conformità al sistema…Clicca qui per acquistare il libro.
AP (30/03/2025) per Agorasofia
Zigmunt Bauman, Paura Liquida, Editori Laterza, Roma-Bari 2009

Più che in ogni altra epoca della storia l’umanità è a un bivio. Una via porta alla disperazione e alla completa assenza di speranze. L’altra alla totale estinzione. Preghiamo affinché abbiamo la saggezza di scegliere correttamente. Woody Allen
La società che Bauman descrive nel suo testo del 2006 non è diversa da quella di oggi: precaria, colma di rancore e sospetto nei confronti dell’altro, preda dell’incertezza verso il futuro, pronta ad accettare ciò che le viene proposto e imposto a livello politico come inevitabile. Una società priva di prospettiva, dunque, che guarda con ansia al futuro, ne ha paura perché non può controllarlo ed è pronta a rifugiarsi in un presente senza storia né responsabilità. Paura, così, nell’analisi di Bauman «è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla.»[1]Ogni paura è collegata ad una minaccia, al sentirci senza difese di fronte ad essa, ma, accanto alla tradizionale paura per le incombenti minacce fisiche, oggi sempre più numerose e letali, Bauman individua un’altra tipologia di paura definita “derivata”. Si tratta, cioè, di una acuita sensibilità al pericolo, di una percezione intensa di vulnerabilità che, collettivamente interiorizzata, dispone verso una visione del mondo deteriore, in grado di compromettere irrimediabilmente i legami sociali e condizionare le aspettative economiche, affettive, culturali di una società atterrita da ansie incontrollabili.
[1] Ivi, p. 4.
AP (06/09/2024) per Agorasofia
Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia, Bompiani, Milano 2005

A venticinque anni dalla prima pubblicazione di questo sintetico opuscoletto, il tema del razzismo si pone ancora e prepotentemente come questione urgente, specialmente dopo gli ultimi episodi della cronaca italiana, spesso derubricati ad accadimenti sporadici, e la piega che prende in tutto il mondo la rivendicazione identitaria. Lo scrittore francese, di origine marocchina, cerca di spiegare in questo testo, adottando parole semplici e generalizzazioni efficaci (non sempre corrette: hutu e tutsi non sono due etnie diverse, ma si tratta della stessa popolazione divisa dai dominatori belgi per sottometterla meglio), le ragioni e le origini dell’odio razziale, non in uno stile pomposo, trattatistico, ma con brachilogie, al fine di esaudire le richieste di chiarimento di sua figlia di 13 anni. Ne risulta un testo leggero, semplice, ma al tempo stesso impegnativo e pregnante, da adottare a per ragioni didattiche in tutte le scuole per efficaci lezioni di Educazione civica, ad esempio. Due le acquisizioni fondamentali di questo testo che necessitano di essere condivise e affermate a livello pedagogico: in primo luogo, il fatto che i bambini e le bambine non nascono razzisti/e, ma lo diventano per motivi legati all’educazione impartita nella socializzazione primaria, quella familiare, e in quella secondaria, appena essi entrano a far parte delle varie comunità immediatamente a disposizione. In secondo luogo vi è l’affermazione secondo la quale i meticci sono sempre belli giacché è proprio “la mescolanza che crea la bellezza!” Clicca qui per acquistare il libro.
ML (16/11/2024) per Agorasofia
Miguel Benasayag, Angélique Del Rey, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2008

Da millenni sappiamo con Eraclito che la lotta degli opposti governa l’armonia del cosmo, ma, si chiedono Benasayag e Del Rey, se si riduce al silenzio ogni voce opposta quale cambiamento ci aspetta?
Il silenziamento del conflitto è ciò che viviamo all’interno delle nostre strutture democratiche. Le attuali democrazie liberiste amano presentarsi come un assoluto incontestabile, in esse, ci dicono gli autori, i conflitti possono trovare spazio solo dopo aver subito un processo di normalizzazione che ne assopisce le tendenze rivoluzionarie. Le tensioni, i conflitti, vengono, dunque, smorzati, appiattiti, infine rimossi, e gli avversari dello status quo ante sono silenziati, ridotti al ridicolo o additati come terroristi di un sistema presentato come perfettibile, certo, ma pur sempre proposto come l’unico in grado di rispettare diritti e dignità umana. La rimozione del conflitto, interiore ed esteriore, implica, al contrario, lo sradicamento dell’alterità e si esprime nella “formattazione” del conflitto: «Dire formattazione significa dire messa in forma, assoggettamento a norme. Ricondurre la molteplicità del corpo sociale alle norme del conflitto così come esso deve svolgersi significa già rimuovere quella molteplicità. (…) La formattazione dei conflitti ha sempre a che vedere con una riduzione del conflitto alla dimensione dello scontro, dietro a cui si cancella alla nostra vista l’inconciliabile molteplicità di ogni vero conflitto»[1].
Il conflitto, declassato alla logica dello scontro privato, sembra annichilire su posizioni che assumono la veste di doxa, opinioni legate ad interessi privati, ininfluenti e di alcuna rilevanza pubblica. La rimozione del conflitto produce, quindi, ladevitalizzazione e la depoliticizzazione della società. L’uomo delle democrazie moderne, ammoniscono Benasayag e Del Rey, è un uomo senza qualità, un uomo astratto, intercambiabile sotto ogni aspetto, privo di storia se non nel generico rimando ai valori astratti che lo plasmano, ma che non arrivano più, non arrivano mai, ad incidere sulla prassi politica.
Il testo ha il merito di risvegliare alla mente la presenza di situazioni drammatiche che parrebbero annunciare il ritorno del conflitto. L’acclarato fallimento delle politiche di integrazione in tutto il mondo Occidentale, ad esempio, è proprio dovuto al ritorno degli oppressi e della loro corporeità da sempre refrattaria all’astrazione. Occorrerebbe chiedersi in modo non retorico, dunque, se le democrazie neoliberiste hanno davvero annichilito la dimensione ontologica del conflitto di matrice eraclitea o se, più verosimilmente, coltivano nelle nostre coscienze ammutolite l’ennesimo, disperato, disincanto. Clicca qui per acquistare il libro.
[1] Miguel Benasayag e Angélique Del Rey, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, 2008, pp. 79-80.
AP (28/09/2023) per Agorasofia
Seyla Benhabib, Cittadini globali. Cosmopolitismo e democrazia, il Mulino, Bologna 2008

Il punto chiave dell’argomentazione della filosofa di origine turca Seyla Benhabib è riposto, dal punto di vista storico, nel passaggio, avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale con la fondazione dell’ONU, ad un ordine internazionale fondato su Dichiarazioni, Carte e Statuti. Tutti questi documenti sanciscono in maniera definitiva i diritti inviolabili per i cittadini e le cittadine degli Stati firmatari. In sostanza, come effetto della globalizzazione, intesa in maniera non meramente economica, ma come estensione delle norme cosmopolitiche a livello planetario, gli individui diventano titolari di diritti inderogabili in qualunque paese vi si rechino. In questo contesto le questioni rilevanti per la sociologa sono tre: in primo luogo l’individuazione dei fondamenti ontologici per il diritto cosmopolitico, rintracciati non nel diritto naturale, ormai inaccettabile, bensì in una interessante concezione dinamica della storia, che richiede sempre la rimodulazione di significati e valori per costruire un nuovo ordine secolare fatto di iterazioni democratiche. In secondo luogo, il diritto cosmopolitico deve essere assunto e fatto proprio dagli Stati nazionali, i quali lo devono ratificare e renderlo esecutivo, un compito demandato agli enti sovranazionali, come l’ONU ad esempio, il quale dovrebbe vigilare e talvolta intervenire in evidenti casi di violazione dei diritti umani. Infine, il terzo punto riguarda il rapporto tra le forme politiche delle specifiche entità statali, con i loro rapporti di forza e le questioni relative alla legittimità democratica interna. Un testo denso di spunti di riflessione teorica, ma anche di soluzioni pratiche per dirimere i conflitti sociali generati dai meccanismi di esclusione. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (23/02/2025) per Agorasofia
Brigitte Berger, Peter Berger, In difesa della famiglia borghese, il Mulino, Bologna 1984

Il testo dei coniugi Peter e Brigitte Berger (entrambi sociologi) risale al 1983 e viene concepito nel pieno della storia degli effetti delle teorie post-strutturaliste e postmoderne sulla morte della famiglia, dopo che la morte di Dio e la morte della religione avevano già abbondantemente occupato la scena culturale, filosofica e teologica. A fronte di posizioni progressiste, liberal per gli americani, i Berger sono consapevoli del ruolo e della funzione delle scienze sociali, della loro avalutatività, ma al tempo stesso è come se implicitamente prendessero le distanze da una tale impostazione epistemologica, facendo emergere i loro giudizi di valore in modo abbastanza chiaro. Il loro approccio sociologico, fenomenologico ed ermeneutico insieme, non può prescindere, infatti, dal significato, dal senso e dei valori che i soggetti attribuiscono alla realtà sociale nella quale sono immersi. In tal caso la loro posizione sia dal punto di vista storico sia politico e progettuale è dichiaratamente in favore della legittimità della famiglia borghese e lo è perché essi ritengono che i valori e l’etica che la sorregge, intesa come comunità emotivamente connotata, sia centrale per la costruzione dell’identità dei soggetti e poi della costruzione di una società organica, quasi all’interno di una prospettiva organicistica. Non c’è dubbio che tra gli anni ’70 e ’80 “la famiglia borghese” fosse diventata un problema, attanagliata da diverse voci che, per vari motivi, attentavano alle radici istituzionali e ideologiche della stessa istituzioni familiare. Tuttavia, gli autori, con coraggio e determinazione, intendono recuperare con argomentazioni equidistanti dal conservatorismo e dal progressismo, in favore della famiglia quale struttura di mediazione e contro l’aggressione da parte di schiere di professionisti in nome di un centralistico e invadente Welfare State. Clicca qui per acquistare il libro usato.
ML (17/03/2021) per Agorasofia
Jesse Bering, Le forme del desiderio. Saggi sul sesso e altri tabù, Codice, Torino 2014

L’autore è un divulgatore scientifico con una specializzazione in psicologia e un approccio alla scienza di tipo darwiniano evoluzionistico, orientamento epistemologico che traspare in ogni questione affrontata. Al tempo stesso, però, egli afferma di essere ateo e omosessuale, circostanze che, a loro volta, influenzano non poco, anche a livello sociale, il punto di vista dello studioso americano. Jesse Bering, tuttavia, affronta le questioni inerenti alla sessualità con un modo di fare molto leggero, faceto, anche linguisticamente irriverente talvolta, ma senza rinunciare ad approfondire problemi molto delicati come la morte, il suicidio, la religione e l’esclusione sociale delle persone omosessuali, discriminate essenzialmente per motivi culturali e morali. Lo spettro delle tematiche affrontate nell’ambito della sessualità dall’autore risulta davvero ampio e la curiosità che desta l’approfondimento scientifico e neurofisiologico di parafilie, zoofilie e altre variazioni sul tema rendono la lettura molto interessante e scorrevole, sicuramente molto più utile per affrontare con i giovani le tematiche della sessualità. Ecco, da questo punto di vista, quello di Bering potrebbe essere un buon testo da adottare per l’educazione sessuale senza veli e pregiudizi all’interno delle scuole…pensiamoci! Clicca qui per acquistare il libro.
ML (13/07/2025) per Agorasofia
Luther Blissett, Q, Einaudi, Torino 2022

1518-1555, un protagonista, nove identità, due continenti, due imperi, tre religioni, una miriade di confessioni religiose nate in seno al protestantesimo. E poi sullo sfondo quarant’anni di dure lotte per il potere, per conquistare la supremazia in Europa. La prima e unica opera di Luther Blissett, pseudonimo o nome collettivo di un manipolo di scrittori, saggisti e musicisti coraggiosi, poi saliti alla ribalta con il nome di Wu Ming (per saperne di più www.wumingfoundation.com), mette in scena con grande maestria loschi espedienti diplomatici intrecciati alle guerre di religione insieme a grandi eventi mossi da piccoli e insignificanti pedine che lavorano nell’oscurità per consegnarci la storia dei casati, delle dinastie, dei regni. Non manca, in filigrana, la narrazione altamente didattica di note vicende storiche, magistralmente avvinghiate alla trama intricata del romanzo in cui spicca un solo personaggio, un uomo che ha vissuto sulla propria pelle le più grandi repressioni nei confronti delle eresie cristiane e non. Q – il suo nome in codice – è stato con Thomas Müntzer, con gli anabattisti di Münster, con i loisti olandesi, con gli evangelisti italiani e con i marrani. Tante battaglie e un solo obiettivo nel suo viaggio continuo nei territori dell’Europa: combattere le autorità consolidate, i soprusi, l’establishment consolidato e repressivo. Un libro con mille piani di lettura, storiograficamente interessante e profondamente deleuziano nella scrittura, nella struttura e nella forma. Il molteplice qui viene tematizzato e diventa l’orizzonte principale: un protagonista senza reale identità, uno scrittore con più identità, una macchina da guerra contro il potere e sempre una via di fuga a portata di mano per una nuova esistenza. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (13/08/2010) per Agorasofia
