G-H

Gabriel García Márquez, Diatriba d’amore contro un uomo seduto, Mondadori, Milano 2007

Viene pubblicato nel 2007 in una snella collana di Mondadori questo inedito testo dell’autore del più surreale romanzo scritto negli ultimi anni del ‘900: Cent’anni di solitudine, capolavoro del realismo magico sudamericano. Diatriba d’amore contro un uomo seduto non è che un piccolo e maneggevole testo teatrale, in cui l’autore mette in scena un solo personaggio: Graciela, anche se in realtà sul palco ci sarebbe pure suo marito, seduto sulla poltrona, di spalle al pubblico, che ascolta impassibile e alla fine si lascia anche bruciare, affetto da un cronico oblomovismo che è partito dall’aspetto sentimentale e ha corroso, tutta intera, la stessa volontà di viver sua e di sua moglie. Un inno alla lealtà, alla dignità di una donna – una come tante – che alla soglia del 25esimo anniversario di matrimonio riflette retroattivamente sulla sua vita priva di slanci, sul suo matrimonio infelice con un uomo infedele, e cerca, a suo modo, di riscattarsi verbalmente, ma è solo un fuoco di paglia, perché le alternative sono complicate. Eppure un tempo si erano amati, erano fuggiti da casa per sposarsi contro la volontà di tutti e tutte, ma il tempo è impietoso e corrode prima la passione, poi l’amore, poi anche il rispetto, trasformando tutto in un’amorfa routine. Ora Graciela impreca, sbraita, si straccia le vesti, richiede attenzioni, ma lui resta impassibile e così Marquez mette sulla bocca della protagonista una verità antropologica che è la radice dei suoi problemi, ma che è anche l’origine del patriarcato occidentale su cui dovremmo ancora aprire una profonda riflessione: «Solo un Dio maschio poteva regalarmi questa bella scoperta per le nozze d’argento. E devo ancora ringraziarlo perché potessi spassarmela nella mia stupidità, un giorno dopo l’altro, durante 25 anni mortali». Meno di cento pagine da leggere tutte d’un fiato, senza interruzioni, senza distrazioni, per poi fermarsi a riflettere sui danni del tempo inutile, quello non scelto, quello subito per consuetudine o, peggio, per necessità, per sudditanza, per non far parlare la gente, quando la gente ricama trame che si appiccicano addosso e non vanno più via. Meno di cento pagine che sono un inno alla liberazione dall’amore incatenante, dall’amore infedele, dall’amore violento che nessuna donna merita, perché tutte hanno il diritto di essere felici. Clicca qui per acquistare il libro.

ML (06/07/2025) per Agorasofia


Giuseppe Genna, Hitler, Mondadori, Milano 2009

G. Genna, Hitler

Ci sono dei romanzi che accompagnano un personaggio nella sua crescita fisica, intellettuale e spirituale e, solitamente, li si definisce romanzi di formazione; anche questo complesso lavoro di Giuseppe Genna, in qualche modo, è un romanzo di formazione, solo che invece di una crescita, vi è una inesorabile e profonda discesa negli abissi infimi del male, della perversione, del disumano che fagocita lucidamente l’umano. Con un linguaggio asciutto, essenziale, a tratti estremamente crudo, Genna mette da parte la solita retorica sui soccombenti e prova coraggiosamente a seguire il delirio di onnipotenza che si abbevera alla fonte del male e s’infrange contro l’unico inesorabile destino di una morte che atterrisce: necrosi della carne e dello spirito. Genna non solo narra vicende note e meno note, descrive luoghi grigi e abbruttiti dal male, analizza personaggi con attenzione e cura, ma si lascia anche andare a intense riflessioni sull’essere umano, sulla storia, sul tempo e ciò che emerge è un diffuso senso di pessimismo come gravame congenito dell’esistenza, come se il male avesse posto una inesorabile ipoteca su tutto il creato. Clicca qui per acquistare il libro.

ML (22/08/2012) per Agorasofia


Anthony Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, il Mulino, Bologna 2013.

Giddens analizza in questo testo le trasformazioni occorse all’interno delle relazioni interpersonali, soprattutto di coppia, in cui sono implicate modificazioni sostanziali nell’ambito della sessualità, dell’intimità, fino alla rappresentazione stessa dell’amore. Per quanto riguarda la sessualità, non vi è dubbio che negli ultimi decenni essa sia stata concepita come uno dei terreni principali su cui potesse avvenire una rivoluzione radicale e, in effetti, ha comportato una serie di rivendicazioni che hanno modificato anche il ruolo della donna nella società occidentale. Ma anche la concezione dell’amore è cambiata, infatti oggi l’amore romantico, un legame tra due persone basato sull’idealizzazione dell’amore come sentimento, si presenta come un ethos particolare che prelude alla relazione pura e ha permesso alla donna di opporsi al maschilismo, anche in virtù dell’affermazione della sessualità duttile, cioè una sessualità libera dalla riproduzione, finalizzata al piacere anche per la donna. Si tratta di una evoluzione del rapporto, che vede un bilanciamento dello squilibrio a favore dell’uomo, e che elabora una nuova concezione della sessualità, da cui è derivata anche una maggiore aggressività e violenza nei confronti della donna. Queste trasformazioni dell’intimità hanno comportato una maggiore democratizzazione dei rapporti di coppia, similmente a quanto accaduto nella sfera pubblica. In conclusione, Giddens ritiene che attraverso questa sessualità risemantizzata sia possibile cogliere l’altro come trascendenza, sottraendo le relazioni umane al primato della crescita economica e del controllo tecnico, elementi da cui la maggior parte della vita di oggi viene condizionata. Clicca qui per acquistare il libro.

ML (29/02/2020) per Agorasofia


Antony Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994

«E se questo presente fosse l’ultima notte del mondo?»

Sicurezza/pericolo e fiducia/rischio: su queste dicotomie, sul loro apparente superamento, si fonda la modernità. Rispetto ai sistemi premoderni, sostiene Antony Giddens ne Le conseguenze della modernità, le istituzioni sono state capaci di offrire agli abitanti della modernità politiche securitarie e vincoli di fiducia in grado di rigenerare un altrimenti confuso senso di appartenenza. Sotto l’implacabile dettato di uno sfolgorante progresso, la crescente razionalizzazione tecnologica e burocratica ha provveduto a sublimare l’ansia di interazioni sociali imprevedibili in comportamenti standardizzati. L’analisi di Giddens sostanzia l’accesso alla modernità nelle scissioni tra spazio e luogo, tra tempo spazio, che cinicamente producono la disgregazione dei sistemi sociali tradizionali mentre favoriscono rapporti tra persone «assenti», localmente distanti da ogni interazione «faccia a faccia» (p. 28). 

Risucchiati all’interno di uno spazio vuoto, i rapporti sociali nella modernità risultano fondati su un tipo di fiducia del tutto peculiare, che riconosciamo facilmente come nostra perché non è accordata, cioè, a soggetti concreti, ma alle loro capacità astratte. L’esempio dei sistemi esperti[1] chiarisce: sebbene ciascuno di noi possa avere rapporti più o meno saltuari con professionisti (avvocati, architetti, notai, medici), il loro sapere, essendo integrato in tutte le istituzioni, finisce con l’agire in modo continuativo sulla nostra vita. Secondo Giddens, la nostra fiducia «non riposa tanto in loro (pur dovendo fidarci della loro competenza) quanto nella validità del sistema esperto che essi applicano» (p. 37). È la fiducia la base incerta su cui ancora progettiamo il nostro futuro, minimizzando rischi e pericoli e assumendo un atteggiamento di nonchalance o compostezza, pur sapendo che, ad esempio, gli esperti con cui entriamo in contatto sono esseri umani fallibili (cfr. p. 90). E l’atteggiamento di nonchalance diventa fondamentale proprio nelle situazioni in cui i pericoli sono manifesti – il sorriso del personale di bordo, ad esempio, vale molto più di dettagliate spiegazioni sul (mal)funzionamento degli aerei. 

Il potere condizionante di tali incontri, dicevamo, è ancora, potenzialmente, un formidabile rigeneratore della fiducia nelle istituzioni. Ciò, laddove l’impegno anonimo assunto nei confronti di un sistema esperto tende a tradursi, nel rapporto con le persone (i professionisti) in carne ed ossa che incontriamo, in impegno personale. Ecco, secondo Giddens, qui si annida la possibilità del reintegrarsi dei rapporti sociali che la disgregazione del tempo e dello spazio aveva dissolto. Ma appare in controluce una innegabile trasformazione divenuta operativa nella ristrutturazione dei rapporti sociali prodotta dalla modernità, e cioè che la fiducia personale di “personale” abbia ben poco: essendo essa riposta, in realtà, nel sistema (esperto), si svela definitivamente come meccanismo securitario messo in atto dal sistema stesso. Rimane quindi da chiedersi, e le domande possono assumere toni cupi: che ne è oggi delle istituzioni della modernità, degli obiettivi di sicurezza e ordine che esse si prefiggevano? Cosa resta del senso di rispetto per le istituzioni nella società postmoderna in cui la fiducia istituzionale è tradita ogni giorno? In cui la discontinuità esistenziale è essa stessa il tratto essenziale dell’uomo del XXI secolo? In cui l’imperativo efficientistico connesso alla flessibilità lavorativa produce una drammatica insicurezza ontologica, cui comunemente diamo il nome di ansia, paura, nevrosi? In questa società anestetizzata al dolore, permane, invero, il sospetto che fiducia e sicurezza siano solo alibi dietro cui avanza cinico e anonimo l’homo consumens

Così, come ci ricorda Ulrich Beck ne La società del rischio globale, la spersonalizzazione dei rapporti è definitiva e ciò avviene proprio mentre tra i nostri gesti quotidiani – come bere un caffè – e gli eventi più remoti – lo sfruttamento dei lavoratori delle piantagioni di caffè – si instaura un rapporto diretto. Ma la protesta rimane muta. Perché? Del resto, chi può pensare tutto il giorno a catastrofi possibili delle quali non ha il minimo controllo? La tanto agognata sicurezza ontologica già incrinata andrebbe definitivamente in frantumi. Subentrano allora quelle che Giddens ha definito “reazioni di adattamento”, che non sono prive di costi psicologici a livello individuale e sociale, ma dietro le quali ognuno di noi potrà forse riconoscere un proprio malcelato atteggiamento:

  • Accettazione pragmatica: «implica una indifferenza che spesso riflette gravi stati di ansia»;
  • Ottimismo sostenuto: implica «una cieca fiducia nella ragione a dispetto di pericoli incombenti»;
  • Pessimismo cinico: una variazione dell’accettazione pragmatica che sfocia nel cinismo e nel black humor «per attenuare l’impatto emotivo dell’ansia attraverso risposte basate sull’umorismo» (Cfr. pp. 134-136).

AP (13/10/2024) per Agorasofia


Natalia Ginzburg, Famiglia, Einaudi, Torino 2018

Appare fin troppo chiaro il messaggio della Ginzburg alla luce dell’evoluzione storica della cultura italiana occorsi nell’arco di poco più di un decennio dalla pubblicazione di Lessico famigliare (1963). Famiglia e Borghesia sono qualcosa in più di una endiadi; si tratta, piuttosto, della tendenza a rappresentare una stessa realtà mediante storie diverse che si intrecciano, non tanto nei personaggi, ma in una temperie tesa a mettere al centro la riflessione sulle trasformazioni della famiglia borghese tout court. Entrambi i racconti portano all’interno della struttura della famiglia, che fino a qualche anno prima poteva essere costruita e mantenuta attraverso un linguaggio rammemorante, un’aria thomasmanniana, pestifera e decadente, pervasa ovunque di morte, separazione, disperazione e anomia sociale. L’analisi in parallelo dei due racconti mette al centro della riflessione l’epilogo della famiglia borghese: non è tanto l’esito della legge sul divorzio del 1974 a influire negativamente, ma è una solitudine costituiva del tessuto sociale, un’aridità culturale che non imprime nessun colore all’esistenza dei personaggi: non ci sono famiglie tradizionali composte da madre, padre e figli, non ci sono relazioni intime significative, tutti i legami famigliari sono fallimentari, il matrimonio è perlopiù un legame infelice dal quale fuggire appena ne se presenta l’occasione, i rapporti genitoriali appaiono quasi sempre insopportabili, gli adulteri sono all’ordine del giorno, ma non sono nemmeno soddisfacenti e presto si risolvono anche loro in relazioni asfissianti. Quello della Ginzburg è un definitivo congedo da un mondo sempre più frammentato, la trasposizione letteraria della fine delle metanarrazioni moderne, che di lì a due anni avrebbe preso il nome di condizione postmoderna con Lyotard. Clicca qui per acquistare il libro.

ML (05/05/2021) per Agorasofia


Renzo Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Laterza, Roma-Bari 2004

È opinione piuttosto diffusa che le precondizioni politiche necessarie affinché possa esserci un dialogo interculturale, inteso grossolanamente come sottoinsieme del dialogo interreligioso, vadano rintracciate se e solo se ci si possa confrontare sul piano della democrazia, quella che, nella fattispecie, in Europa assume la forma della democrazia liberale con caratteristiche ben precise e distinte, di cui Renzo Guolo traccia il profilo. Eppure, resta un problema di fondo, infatti molte delle caratteristiche di cui parla l’autore in relazione al contesto europeo non sono specifiche della democrazia tout court, come se fosse la essa fosse un progetto ideale perfettamente realizzato solo in Europa, ma il risultato multidimensionale di un’evoluzione che il diritto, la cultura, la storia e la politica hanno avuto in ogni singolo Stato europeo e che difficilmente si può pensare di esportare altrove. A partire da queste considerazioni preliminari, che riguardano i sistemi politici occidentali, Guolo cerca di tratteggiare i motivi politici, religiosi, sociali e culturali per cui i paesi islamici stentano a far partire istituzioni realmente democratiche. Gli ostacoli opposti dalla religione islamica allo sviluppo democratico sono reali, ma al tempo stesso ritenuti sormontabili da una schiera di intellettuali musulmani cui andrebbe dato maggior peso sociale per consentirgli di innescare una rivoluzione culturale su larga scala. Ad ogni modo, così come l’involuzione autoritaria islamica ha risentito dei modelli totalitari europei, cui si sono largamente ispirati, non è difficile pensare che proprio l’Euroislam, cioè l’Islam nelle condizione della minoranza cognitiva del migrante, con la sua dose di relativizzazione, spaesamento e individualismo, tipici fenomeni della secolarizzazione occidentale, possa accedere ad una forma di privatizzazione e interiorizzazione della religiosità islamica in grado di operare quella necessaria separazione tra la dimensione religiosa e quella politica ed esportare questa nuova identità socio-politica senza accedere all’uso delle armi. Chiaramente, si tratta solo di un’ipotesi, forse anche leggermente occidentalista, se si ritiene che il modello della secolarizzazione occidentale possa portare benefici all’Islam in termini di democratizzazione del potere. Del resto, il fatto che nei paesi europei, e occidentali in generale, la democrazia liberale sia riuscita effettivamente a permettere la partecipazione del popolo alla politica è ancora tutto da dimostrare, giacché tra accentramento dei poteri nelle mani del premier, repressione sistematica del dissenso, militarizzazione diffusa e adozione di sistemi elettorali maggioritari, la svolta autoritaria è oggi sempre più evidente al punto da rendere il termine democrazia un concetto sempre più vuoto e abusato. Clicca qui per acquistare il libro.

ML (01/06/2025) per Agorasofia


Jürgen Habermas, Rinascita delle religioni e secolarismo, Morcelliana, Brescia 2018

J. Habermas, Rinascita delle religioni

Anche per Habermas, come per il filosofo Martin Heidegger, bisogna registrare nel corso degli anni un passaggio da un ateismo marcato, o ateismo di principio, ad una posizione più morbida nei confronti della religione, solo che nella prospettiva di Habermas ciò è imputabile principalmente all’evidente ripresa del ruolo pubblico delle religioni nell’età postsecolare. Si tratta, infatti, di analizzare il ruolo delle comunità religiose in un contesto in cui la secolarizzazione delle istituzioni ha certamente fatto il suo corso, ma, tuttavia, bisogna tener debitamente in conto che i mezzi di comunicazione di massa, i dibattiti su alcune questioni di valore e l’immigrazione di altri popoli in Europa insistono su elementi chiaramente religiosi. Allora, all’interno di questo quadro socio-culturale, il punto decisivo diventa il seguente: consideriamo pure che le religioni accettino di vivere in un mondo secolare e aprirsi al dibattito pubblico con una versione più ragionevole delle loro fedi, i loro interlocutori secolaristi sono disposti ad accettali? Qui si apre, evidentemente, una frattura che è epistemologica tra due diversi presupposti cognitivi, infatti si tratta di distinguere tra un’idea secolare di “ragione autonoma”, tipica di soggetti che fanno riferimento alla ragionevolezza e un’idea secolaristica di “ragione autonoma”, tipica di soggetti che attribuiscono alla ragione una sorta di esistenza autonoma. Quest’ultimo tipo di prospettiva conduce verso posizioni laicistiche, che non concedono alle religioni la possibilità di separare gli ambiti perché, in fondo, dubitano che la ragione possa essere autonoma in presenza di un nucleo veritativo di tipo metafisico. Alla fine, l’opzione di Habermas è orientata ad invitare gli interlocutori secolaristi ad ammettere che la loro filosofia della storia, ciò che permette un avanzamento del dibattito sui diritti umani, non è che una secolarizzazione dell’universo simbolico del cristianesimo primitivo e, di conseguenza, il dialogo oltre a essere possibile è anche necessario. Clicca qui per acquistare il libro.

ML (07/05/2020) per Agorasofia


Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2008

Sono passati ormai vent’anni da quando il filosofo canadese Charles Taylor e il filosofo tedesco Jurgen Habermas cominciarono a riflettere sulle questioni legate agli assetti istituzionali derivanti da quello che tecnicamente e fenomenologicamente potrebbe essere definito con l’espressione «pluralismo dei mondi della vita», cioè l’insistenza sullo stesso territorio di culture che si richiamano a tradizioni diverse. Da quel momento il tema del «multiculturalismo», come questione sociale urgente, è apparso nelle agende di tutti i paesi europei e americani, per poi estendersi anche oltre. Sulla scorta di una forma di pensiero postmoderno, fortemente critico nei confronti dell’imperialismo del soggetto occidentale, ma anche di una rinnovata attenzione alle questioni identitarie, molte culture e tradizioni minoritarie hanno cominciato a richiedere un adeguato riconoscimento all’interno della propria comunità politica. Il risultato di questa richiesta di riconoscimento da parte delle soggettività riunitesi intorno a comunità che via via andavano sempre più marcando i propri confini rispetto alle altre ha richiesto approcci e soluzioni differenziate a seconda degli Stati, dal momento che non tutti i paesi hanno avuto la stessa storia e la stessa evoluzione istituzionale. Questo testo, oltre ad aver dato il via la dibattito a livello internazionale, ha anche posto le basi per soluzioni politiche di tipo liberal-costituzionale (Habermas per la Germania) oppure comunitario (Taylor per il Canada). Era solo l’inizio di un dibattito che ha prodotto una miriade di posizioni, alcune ibridanti, ma anche molte tendenti alla segregazione delle comunità autoreferenziali. Vero è, tuttavia, che Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento ha posto anche le basi per una nuova antropologia relazionale. Clicca qui per acquistare il libro.

ML (01\02\2025) per Agorasofia


Byung-Chul Han, Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione, Einaudi, Torino 2025

La felicità profonda esiste solo se attraversata da un’intensità dolorosa, non altrimenti è l’angoscia il filtro di ogni nostro sentire. Questi tempi disperati si nutrono di noi, individui insofferenti, isolati e distratti, ma convinti del contrario. Avatar sempre accesi e connessi, siamo in realtà spenti e indisponibili, in vigile attesa dell’ennesimo aggiornamento delle nostre vite digitali, oppio dei popoli. Questi tempi ipocriti si alimentano di accondiscendenza, finta solidarietà, di dissensi simulati in innocue proteste, composti flash mob in piazze deserte. Sorvegliati e felici, afflosciamo l’esistente in viaggi organizzati, manuali d’istruzione dettagliati, visite guidate e navigatori satellitari che ci indichino il percorso più breve. I sentimenti, ancor più sedati dalla sovraesposizione alle immagini di morte, rigettati come bug di sistema, esplodono in esasperata teatralità, sfumano ovunque in discutibile ironia. La claque applaude a scena aperta e la laff box ci invita ad un’ultima risata.
In Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione (Einaudi, 2025) Byung-Chul Han incalza il lettore: «oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore». Pavido e conformista, l’individuo descritto da Han anela la felicità ma vive sotto anestesia, non può permettersi di sognare, quindi non dorme più. Guarda con sospetto persino i suoi desideri più intimi – tanto potrebbero turbarlo! Indolente, abbandona ogni lotta e ideale in nome di una vita ottimizzata nella performance, esibita a caccia dell’analgesico più a buon mercato, il like, apoteosi dell’homo-connexus-tutorializzato. Del resto, la stanchezza dell’io, stroncato nel vigore proprio dalla pressione della prestazione, «risulta ancora la migliore profilassi contro la rivoluzione» (La società senza dolore, p. 16). Il trionfo del positivo, definibile proprio a partire dall’eliminazione del negativo che è il dolore, fa buon gioco a tutti i dispositivi neoliberisti che esaltano la performance ottimizzata a modello di successo e felicità e che proprio nell’assenza della critica possono proliferare indisturbati. Han ci ricorda, invece, che la felicità non può essere ottimizzata, che essa resta sempre indisponibile, commista ad un’intensità che scuote. Proprio per questo è inseparabile dal dolore, inteso come vincolo, differenza, realtà. Il dolore è vincolo, perché «senza dolore non abbiamo né amato né vissuto». Il dolore è differenza, perché ci allontana dall’Inferno dell’uguale«Gli organi del corpo si lasciano riconoscere a partire dal loro dialetto del dolore. Il dolore marca i confini e sottolinea le differenze». Il dolore è realtà, perché «noi percepiamo la realtà soprattutto a partire dalla resistenza, che provoca dolore». Il negativo, quindi, racconta quell’insopprimibile respiro di una vita viva, attenta e consapevole, disponibile all’altro perché intrisa di una sofferenza che salva dall’Inferno dell’Uguale, di una fragilità che ci accomuna e che, infine, ci mostra in tutta la nostra smarrita bellezza, indifesi e sinceri. «È il dolore a distinguere la coesistenza viva dalla prossimità morta». Già Léo Ferré scriveva che «la disperazione è una forma superiore di critica», e aggiungeva: «per ora la chiameremo “felicità”». Accostare il dolore – anche disperato – alla felicità non è un ossimoro, ma è ciò che paradossalmente ci apre alla speranza, svegliandoci dagli inganni dell’acritica società dell’angoscia. «Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico. Alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi. Per cui si soffoca tra le scorie della positività che vanno accumulandosi sotto la superficie della cultura della compiacenza». Le sirene della società senza dolore non cesseranno facilmente di incantarci. Qui anche il potere neoliberista diventa smart. Esso non reprime, bensì seduce orientandoci verso il mito di un’illusoria auto-realizzazione – sii libero, sii felice, sii obbediente e potrai avere ciò che vuoi! «Il dispositivo della felicità isola l’essere umano e conduce a una spoliticizzazione e desolidarizzazione della società. Ognuno deve badare alla propria felicità, che diventa quindi una questione privata». Ma, ci ricorda Byung-Chul Han, una felicità reificata è solo il simulacro della felicità, che non esiste in senso pieno senza il negativo, né senza la condivisione. «Ogni intensità è dolorosa […]. Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore. La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore». L’antidoto alla società dell’angoscia comincia rievocando questa scarna verità. Clicca qui per acquistare il libro. 

AP (15 agosto 2025) per Agorasofia


Thérèse Hargot, Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), Sonzogno, Milano 2017

Il libro di Thérèse Hargot, una giovane filosofa specializzata in sessuologia, pur di rendersi accattivante e piuttosto editorialmente ammiccante, si presenta di una banalità inaudita, con una serie di luoghi comuni sul sesso e tanti moralismi mascherati tra le testimonianze raccolte nello studiolo da pseudo-psicanalista. Resta abbastanza deluso chi, in virtù del blasone accademico dell’autrice, cerca un approccio scientifico ai molti e seri problemi inerenti alla sessualità di giovani e meno giovani. I problemi sono presentati o, meglio, abbozzati dai pazienti, dai ragazzi e dalla ragazze, ma non affrontati scientificamente, ricevono solo ulteriori interrogativi e rimandano a stereotipi facilmente identificabili in una morale cattolica abbastanza retriva, in inopportuni riferimenti sacramentali e nei triti e ingenui argomenti psicoanalitici, che vanno dai fantasmi onnipresenti alle autorevoli e ingombranti figure paterne. Al di là della palese matrice cattolica, la più bigotta in circolazione, l’autrice intende criticare, già dal titolo, i risultati di quella che è stata la Rivoluzione sessuale avviata dal femminismo militante negli anni ’60 e ’70. La libertà oggi, che significa libera scelta del proprio orientamento sessuale, di usare o meno i contraccettivi, di controllare le nascite, di scegliere tra amore e sesso, avrebbe solo angosciato i soggetti e provocato il deterioramento dei valori tradizionali, riducendo la donna a merce in vendita. Questa responsabilità, effettivamente, è difficile da gestire per le odierne identità individualizzate, ma per il quadretto lefebvriano che presenta Hargot diventa un serio problema, per cui tra le righe emergono i bersagli preferiti di questo argomentare: la pillola anticoncezionale, che contravviene all’imperativo divino: “siate fecondi e moltiplicatevi”, l’aborto, i matrimoni omosessuali, definiti pietra d’inciampo, e il femminismo egualitarista di quella che tra le righe sembra apparire la decrepita e ormai tramontata nonna Simone De Beauvoir. Insomma, per essere una sessuologa, qui il discorso sul sesso diventa a tratti anche imbarazzante, meglio virare sulle sempiterne analisi foucaultiane! Clicca qui per acquistare il libro.

ML (28/09/2025) per Agorasofia


Max Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969

Papà la luna è la réclame di che cosa?

Che testo potente che è Eclisse della ragione! Pubblicato nel 1947, Max Horkheimer vi traccia una critica serrata, circostanziata e attualissima della ragione strumentale, sostituta narcotizzante della sbiadita ragione oggettiva, quest’ultima costretta ad abdicare al suo ruolo guida in nome di un progresso industriale imponente che bada solo all’efficacia dei mezzi, tacendo sulla razionalità dei fini. La ragione soggettiva, strumentale, agisce in modo meccanico, computa, assembla, unisce puntini già tracciati. È stupida. Si confonde col già pensato, col già detto. Ai suoi occhi la realtà si presenta come un insieme giustapposto di strumenti da utilizzare. La capacità di affermare nuovi contenuti, di avanzare una critica, di sollevare una mano per chiedere la parola non la sfiora. Queste attività, questi esercizi di libertà, anzi, la impaccerebbero, perché la sopravvivenza e l’adattamento dipendono dalla prontezza di riflessi con cui servirsi di ciò che è già disponibile. In una situazione siffatta, per l’uomo ridotto ad animal laborans, schiavo di meccanismi e congegni che lo soffocano, ciò che conta è essere rapidi, pronti, sicuri di sé. La riflessione, il dubbio, il confronto pubblico e libero con gli altri rappresentano lussi che non può concedersi. Ciniche forze socioeconomiche appannaggio di ristrette élite, come cieche forze naturali ne hanno plasmato progressivamente il carattere, indirizzando le sue aspirazioni culturali e morali verso il mimetismo sociale: mero adattamento, dunque, totale identificazione con il mondo degli oggetti per amore della sopravvivenza (p. 102). Nessun anelito alla protesta collettiva, nessuna tensione critico-razionale. Il quadro che ne emerge è desolante, fa quasi tenerezza questo tipo peculiare di uomo incatenato nella ragione strumentale, assuefatto alle parole d’ordine della produzione, perennemente agitato nel tentativo muscolare di trasformare tutte le cose a sua portata in un mezzo per garantirsi l’autoconservazione o il riconoscimento. Isolato dagli altri e perversamente convinto che tale solitudine sia il frutto necessario dell’emancipazione. La reificazione dei sentimenti è solo il passo successivo di una ragione ormai eclissata, perché spogliata della sua potenza creativa. Di fronte ad una realtà così asfittica dovrebbe alzarsi forte la protesta di coscienze offese… e invece la luna continua ad ispirare solamente i poeti, i filosofi e gli sciocchi…

AP (31/10/2024) per Agorasofia