William James, Le leggi dell’abitudine, Mimesis Minima/Volti, Milano 2019

Quando consideriamo le creature viventi da un punto di vista esterno, una delle prime cose che ci colpisce è che esse sono fasci di abitudini… Comincia così il breve scritto in cui, nel 1887, il filosofo William James tenta di chiarire come si vengano a strutturare le abitudini, attraverso l’instaurarsi di complesse dinamiche che coinvolgono, nell’uomo, processi cerebrali, fisiologici, e risposte comportamentali. Al di là delle implicazioni sul parallelismo psico-fisico che aprono le riflessioni di James, qui mi preme sottolineare un dato che dal testo emerge in rilievo: sono le abitudini, all’interno di un’azione educativa strutturata e funzionale al mantenimento dello status quo, uno degli strumenti maggiormente reazionari a disposizione della società. James ha analizzato questo aspetto con lucidità e chiarezza: «L’abitudine è dunque l’enorme volano della società, il suo più prezioso agente conservativo. Essa è ciò che tiene tutti noi entro i confini dell’ordine sociale (…)[1]».Aggiornando ai nostri tempi il testo di James potremmo dire che l’abitudine esercita su uomini e donne una pressione coercitiva enorme. Essa riesce a immobilizzare milioni di persone di fronte a un monitor per 12 ore al giorno, ogni giorno; le trattiene all’interno dei centri commerciali alla ricerca di ciò che credono di non avere; azzera l’intraprendenza, la curiosità, la ricerca di un’ancorché minima novità; ci tiene comodi sul divano e ci fa rigettare come una malattia la scomodità, la ricerca di posture differenti; ci allontana dalla riflessione, ci isola nel già noto; ci placa, resilienti, obbligandoci «a combattere la lotta per la sopravvivenza entro i limiti della nostra educazione (…)»[2]. Clicca qui per acquistare il libro.
[1] William James, Le Leggi dell’Abitudine, Mimesis Minima/Volti, Milano 2019, p. 49.
[2] Ivi.
AP (03/09/2023) per Agorasofia
Immanuel Kant, Benjamin Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Mondadori Bruno, Milano 1998

Il dialogo immaginario tra Immanuel Kant e Benjamin Constant ci restituisce uno dei più interessanti dibattiti etici della storia dell’umanità. La menzogna a fin di bene si presenta in tutta la sua drammaticità già nella Bibbia, poi l’affronta Agostino, per arrivare in qualche modo a toccare l’illuminismo moderno e proseguire oltre, fino a lambire vette molto alte nella cinematografia con il dilemma del Decalogo 8 del regista Kieslowski. Se Kant rifiuta categoricamente che si possa pronunciare una menzogna a fin di bene, perché renderebbe impossibile la fondazione della società e afferma che «Dire la verità è un dovere assoluto», per Constant è vero il contrario, cioè che dire sempre la verità minerebbe alla base qualsiasi consorzio umano e, quindi, sostiene la tesi secondo la quale il dovere alla verità è tale solo nei confronti di chi ne ha diritto. Con ciò, tuttavia, non risulta ancora sciolto il problema della possibilità dal soggetto di percepire effettivamente la verità e quello, riguardante sempre il soggetto nella ineludibile dimensione interpersonale, di potere e riuscire a dire la verità. Il punto è, tuttavia, che i due illuministi sono ancora alle prese con una sola Veritas e un solo Verbum e quindi essi sono in grado di fondare solo un’etica dei principi, una deontologia. Occorrerebbe, invece, soprattutto per i tempi che corrono, un’etica della responsabilità che, attraverso gli strumenti della filosofia analitica e della decostruzione postmoderna, ad esempio, consideri la narrazione come attestazione costruttiva del soggetto, al di là del vero e del falso, e su quella esprimere considerazioni, prendere posizione in relazione alla sua compatibilità con l’edificazione di un futuro compatibile con la sopravvivenza di un’umanità pacifica sulla Terra. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (03/11/2010) per Agorasofia
Daniel Kehlmann, La misura del mondo, Feltrinelli, Milano 2014

Mentre uno passa le sue giornate in giro per il mondo a tracciare nuove e più precise mappe geografiche, a scoprire inesplorati varchi, a scalare improbabili montagne, l’altro nel chiuso del suo studiolo intuisce la curvatura dello spazio, mette in crisi la geometria euclidea e scopre nuove e proficue relazioni tra i numeri: il primo si chiama Alexander von Humboldt, il secondo Carl Friedrich Gauss, due giganti sulle cui spalle noi muoviamo timidi e, a volte, ingrati passettini. Ripercorrendo i luoghi fisici e metafisici (perchè chi non conosce la pura metafisica non diventerà mai un vero tedesco!) più impervi e astratti, l’autore svela i particolari più interessanti e inaspettati della vita dei due geni, a partire dalla loro infanzia, fino al momento del loro incontro in uno dei più noiosi Congressi degli scienziati tedeschi a Berlino! Ad onor del vero, parte del romanzo è di pura invenzione, ma resta sempre apprezzabile il gusto affascinante con cui l’autore imbastisce il rapporto tra verità e finzione, oppure il modo in cui mostra la genesi, a volte, del tutto accidentale e contingente della scoperta scientifica, ma anche il rigore assolutamente deterministico delle leggi matematiche. Un libro piacevole nello stile, nella prosa e nella sua organizzazione: da leggere… ma solo dopo esser riusciti a sommare tutti i numeri da 1 a 100, senza calcolatrice, in meno di tre minuti, in tal caso avete buone possibilità di essere un genio come Gauss!!! Clicca qui per acquistare il libro.
ML (01/05/2009) per Agorasofia
