Francois Laplantine, Identità e metissage, Eleuthera, Milano 2014

La logica identitaria e quella rappresentazionale costituiscono i bersagli principali del lavoro antropologico di questo autore estremamente interessante per decostruire il violento immaginario coloniale e imperialista prodotto dall’Occidente. In particolare, Laplantine ritiene che la metafisica e l’ontologia occidentali, da Parmenide a Hegel, abbiano sistematicamente celebrato il tripudio dell’identità, della fissità e della rappresentazione sostanzialista del reale, bloccando e mortificando altrettanto sistematicamente l’espressione imprevedibile della metafora, dell’inedito letterario e utopico. Ciò che si è prodotto a livello teoretico, del resto, ha avuto, inevitabilmente, la sua controparte politica e morale nella negazione radicale dell’alterità, del diverso, del senso alternativo e del culturalmente inafferrabile. Laplantine in tutta la sua produzione filosofica e antropologia, ma in questo testo in maniera molto puntuale, ci aiuta a comprendere che riconoscere quanto la narrazione occidentale sia stata pregiudizievole sia solo il primo passo per invertire il corso della storia per avviare la costruzione di un futuro più civile. Mostrare come l’alterità sia stata continuamente e radicalmente misconosciuta è solo il preludio, l’anticamera, per tessere l’elogio del meticciato in antropologia, ipotesi corredata da un ammiccante apparato filosofico postmoderno e da una intrigante rete di rimandi alla letteratura dell’assurdo e all’astrattismo e all’arte non rappresentativa. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (20/05/2009) per Agorasofia
Sadi Marhaba, Karima Salama, L’anti-islamismo spiegato agli italiani. Come smontare i principali pregiudizi sull’Islàm, Erickson, Trento 2003

Nel solco della proficua tradizione editoriale avviata da Erickson, il testo di Sadi Marhaba, docente di psicologia all’Università di Padova, e di Karima Salama, pedagogista a mediatrice culturale, si presenta sotto la veste di una semplice e didattica esposizione dei principali pregiudizi degli italiani e delle italiane nei confronti dell’Islam. Si tratta di preconcetti abbastanza diffusi che, purtroppo, vengono spesso rinforzati da una certa lettura dei fatti di cronaca e che, ancora oggi, non agevolano una serena comprensione della religione islamica nella sua complessità storica, geografica, teologica e culturale. Il testo, che risale al 2003, quindi ben 20 anni prima del fatidico 7 ottobre 2023, data tristemente nota per aver acceso i riflettori sulla Palestina, risulta utile anche per comprendere meglio il contesto in cui è nata l’associazione tra le parole “terrorismo“, “islamismo” e “palestinese“. Basterebbe riportare alcune affermazioni degli autori pronunciate in tempi non sospetti per comprendere che il fenomeno palestinese va letto «nel quadro specifico e circoscritto di una lotta di liberazione nazionale da un’occupazione militare innumerevoli volte, e per oltre cinquant’anni, definita illegittima e rovinosa dalle Nazioni Unite, dai Paesi europei, dalle autorità religiose della Chiesa cattolica e delle altre confessioni e persino […] dagli Stati Uniti, alleato di ferro e protettore incondizionato di Israele» (p. 111). Erano certamente altri tempi quelli in cui si affermava che: «Nessuna legalità, nessun codice etico, nessuna speranza in un comune riferimento al divino o all’umano, nessun ricorso a figure terze (ONU, giornalisti, Chiese, ecc.) protegge i civili palestinesi dall’assoluto arbitrio, nei loro confronti, da parte dei militari, dei poliziotti, dei coloni, dei semplici civili israeliani» (p. 118) oppure che «Non c’è palestinese che non abbia subito, in una forma o nell’altra, violenza fisica e/o psicologica da parte israeliana. Non c’è una sola famiglia palestinese che non abbia da raccontare almeno una storia di violenza, dolore, lutto, orrore» (p. 119). Ma di sicuro erano altri tempi a livello politico, dal momento che avevamo in Italia una classe dirigente pur sempre asservita agli interessi statunitensi, ma forse un po’ più lucida dal punto di vista storico se, ci ricordano gli autori, anche il senatore Giulio Andreotti davanti alle telecamere sulla questione del “terrorismo palestinese” ebbe a dire: «Non so cosa farei io, se vivessi in un campo profughi» (p. 122). Un aspetto interessante sottolineato dagli autori consiste nello slittamento semantico del termine “islamismo”, un tempo utilizzato per riferirsi comunemente alla religione islamica, ma oggi perlopiù adottato per designare il fenomeno del radicalismo all’interno di alcuni settori politicamente connotati legati ai Paesi in cui si professa l’Islam. È un’operazione consueta e diffusa, soprattutto nel momento in cui la semplificazione mediatica ricorre alla riduzione di complessità dei fenomeni oppure alla mera propaganda eurocentrica e occidentalista, ma che a livello cognitivo pregiudica negativamente la stessa religione, portando al suo interno il connotato della violenza. Non mancano, tuttavia, da parte dei due autori le critiche rivolte al mondo islamico, sia europeo sia extraeuropeo, per la mancata occasione di prendere le distanze da quei fenomeni violenti che agevolano la costruzione dei pregiudizi, ma anche per la condizione in cui si ritrova il mondo musulmano, per il fatto di aver perso quella vocazione pluralistica che era tipica dell’Islam delle origini, di cui oggi si recupera soltanto il tradizionalismo. Utile, a livello sociologico e teologico, è la distinzione operata tra i vari integralismi e i differenti fondamentalismi, così come risulta illuminante il riferimento alla condizione della donna. Utilissima, infine, soprattutto per ulteriori e necessari approfondimenti successivi, è senz’altro la bibliografia in appendice, corredata di schede didattiche da poter utilizzare nelle scuole, dove sempre più urgente diventa la comprensione reciproca in un clima di rispetto interculturale. Clicca qui per acquistare il libro.
ML (29/11/2025) per Agorasofia
Erica Mou, Una cosa per la quale mi odierai, Fandango, Roma 2024

Si destreggia abilmente su almeno tre piani temporali e personali diversi questa intimissima rappresentazione della tragedia della morte che, a causa dell’ineluttabile fascino esercitato da Eros e Thanatos, rischia anche di appassionare quando mette in scena la vita nella sua bellezza sin da quando si palesa. Un libro al femminile quello di Erica Mou, che celebra sin dalle prime pagine la nascita di una nuova donna, sua figlia. Sarà proprio questo evento, dopo dieci anni dalla morte della sua mamma, a permette all’autrice di fare i conti con il passato, recuperare il diario materno per darle voce e ripercorrere insieme il dramma della malattia. Ed Erica Mou, da cantautrice e musicista, conosce molto bene il valore del tempo, sa come scandirlo al metronomo, e usa le parole, come ha sempre fatto nelle sue canzoni, con delicatezza, conferendo loro il giusto peso e il sapore del conforto. Infatti, è proprio il parlare che permette l’ingresso nella trama del romanzo. È la necessità di dover dire, di dover comunicare alle persone più care che il proprio tempo, forse, sta per terminare – perché poi doverlo fare? – ad aprire una finestra, a tratti forzarla, nella casa di una famiglia dilaniata dall’angoscia generata dal dolore, dall’abisso della malattia e, poi, inevitabilmente dalla sollevazione della morte. Si fa fatica a mantenere un distacco emotivo dal racconto; si empatizza quasi immediatamente con il dolore fisico di Lucia e quello intimo di Erica, un po’ perché la sofferenza e la malattia sono costanti universali, un po’ perché è abile l’autrice, nella generale tendenza della società artificialmente intelligente a crogiolarsi nell’illusione dell’immortalità, a dipingere con pennellate forti il «quadro bizantino» della Morte. Eppure, lo spiraglio esiste, la Speranza è riposta nelle Tracce che si lasciano: un diario, una lettera, un romanzo da cui nasce una vita totalmente nuova ed una rinnovata nella sua maturità…da qui la risposta all’interrogativo: «Si scrive mai davvero per se stessi?». Clicca qui per acquistare il libro.
ML (20/10/2024) per Agorasofia
