Superlavoro e flessibilità: Bullshit Jobs per David Graeber. E tu che lavoro sei?

La promessa della modernità di una diminuzione dei tempi di lavoro a parità di retribuzione, funzionale a generare una maggior quantità di tempo libero (liberato, non occupato dal lavoro), non si è realizzata. I nuovi lavori, frutto dell’implementazione dei processi di automazione e dell’uso su larga scala dell’IA, si svelano spesso come Bullshit Jobs (lavori senza senso). La definizione è fornita dall’antropologo David Graeber che nel 2013 pubblicava un breve saggio (contenuto qui, Garzanti, 2018) su quelle «professioni inutili che rendono ricco chi le svolge e povero chi fa un lavoro “vero”». I tagli al personale, argomentava Graeber, riguardano sempre i settori della produzione o della manutenzione; i passacarte stipendiati, invece, si rigenerano impiegando il loro tempo-lavoro in seminari motivazionali o aggiornando i loro profili Facebook (p. 10).

bullshit jobs sono così definiti da Graeber: «per “lavoro senza senso” si intende un’occupazione retribuita che è così totalmente inutile, superflua o dannosa che nemmeno chi la svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che sia così» (p. 31). Essi possono riguardare la gestione dei servizi finanziari o di Telemarketing o il diritto societario o l’amministrazione universitaria e sanitaria, oppure le risorse umane. Un esercito di amministratori delegati, avvocati di impresa, addetti alle risorse umane o al Telemarketing, ben consapevoli, questo emerge dai dati (circa il 40%), che il loro lavoro «non dà un contributo significativo alla società». 

Lavori del cavolo, inutili dunque, che, a distanza di dieci anni dalla pubblicazione del fortunato saggio di Graeber, potrebbero includere tranquillamente tutte quelle professioni collegate al Digital marketing, alla creazione e gestione dei contenuti digitali che noi utenti-clienti, ignari dello sfruttamento colossale cui siamo sottoposti, scrolliamo compulsivamente. Il testo di Graeber può così essere sintetizzato: 

  • Ampi strati della popolazione passano l’intera vita lavorativa a svolgere compiti che in cuor loro ritengono non andrebbero affatto svolti;
  • È come se qualcuno ci costringesse a svolgere compiti privi di scopo soltanto per tenerci tutti occupati;
  • Il danno morale e spirituale che deriva da questa situazione è grave. È una cicatrice che segna la nostra anima collettiva, anche se praticamente nessuno ne parla;
  • Com’è possibile anche solo provare a parlare di dignità nel lavoro se si ha l’intima convinzione che la propria occupazione non dovrebbe esistere? (pp. 15-16)

E così, mentre continuiamo a coltivare l’aspirazione utopica verso la fine del lavoro – da realizzarsi (prodigio tra i prodigi del capitale!) grazie al progresso tecnologico – a crescere è, al contrario, una soggezione servile ed alienante nei confronti di un lavoro che non libera più, divenendo, sempre più spesso, un tiranno, avido sequestratore del nostro tempo. 

A questo punto, rimarrebbe da chiedersi senza retorica: cosa spinge oggi frange sempre più ampie di lavoratori ad essere zelanti sul posto di lavoro, così eccessivamente diligenti da sconfinare nel servilismo più ottuso? O pedanti, così maniacalmente attenti ai dettagli da risultare inutilmente cavillosi, oltreché mortalmente noiosi? O, ancora, solerti, sempre così pronti e scattanti non solo a soddisfare immediatamente e senza riflessione critica le richieste che giungono dall’alto, ma addirittura ad anticiparle, intimando agli altri la necessità di far come loro

L’etica del lavoro è oggi un’etica sbiadita: privata dei riferimenti ideologici può essere strattonata all’occorrenza da destra e da sinistra tra ipocrisie e opportunismi. Sotto la pressione inderogabile dei tempi che cambiano, essa ha perduto i suoi punti fermi – il diritto al lavoro, la dignità del lavoro. 

Così, ai tempi del lavoro flessibile sarà possibile mascherare agevolmente precarietà e disoccupazione; ai tempi del lavoro smart si potrà dissimulare l’opacità di un poderoso superlavoro; ai tempi delle ricorrenti crisi (non ultima quella sanitaria, i cui effetti destabilizzanti sono stati progressivamente e superficialmente snobbati) si potrà procedere alla diffusione di narrazioni emergenziali, che perciò impongono dall’alto scelte drastiche ma inevitabili. Inutile, quindi, riferirsi al tradimento dei processi decisionali democratici: Il capitano nel naufragio ha tutta la responsabilità e sceglierà ciò che è meglio per tutti…    

Se non è sempre chiaro in che modi i governi agiscano per il bene pubblico, o i dirigenti per il bene delle aziende, i dubbi dei cittadini e dei lavoratori svaniscono quando, in momenti di crisi, a tutti sono richiesti sacrifici. Si pensa a questo punto a salvare il salvabile, per non compromettere la coesione sociale, per uscire, insieme, dal naufragio. Leggendo Autorità e individuo di B. Russell appare chiaro che: 

«Solo con uno sforzo morale potrete indurre voi stesso a fare più del necessario, onde conservare il vostro posto. Tutta questa situazione è del tutto diversa quando il bisogno è evidente e pressante, per esempio, in un naufragio. In un naufragio la ciurma obbedisce agli ordini senza bisogno di ragionare tra sé e sé, perché ha uno scopo comune che non è lontano e non è cosa difficile capire i mezzi con cui dev’essere raggiunto quello scopo. Ma se il capitano fosse costretto, come il governo, a spiegare i principi della circolazione del denaro al fine di dimostrare che i suoi ordini sono saggi, la nave affonderebbe prima che la lezione fosse finita» (p.66).

Ecco, grazie al dispositivo crisi (in Pensare la Crisi, Aracne, Roma 2022) si consuma una distanza incolmabile tra la direzione e i lavoratori, rendendo possibile richiedere a questi ultimi tutto ciò che occorre; è possibile persino innescare dei processi di rinnovamento delle istituzioni, riducendo al minimo la partecipazione democratica ai processi di cambiamento, che rimangono, a questo punto, appannaggio di non sempre trasparenti gruppi di interesse.

E intanto, sempre più alieni alle questioni sindacali, allontanati alla formazione di una coscienza di classe, frammentati, isolati, quasi smarriti di fronte a cambiamenti su cui non hanno alcuna voce in capitolo, i lavoratori finiscono vittime non soltanto di un’impressionante perdita del potere d’acquisto (crollato in dieci anni del 4,5%), ma anche di una serie di meccanismi psicologici deteriori. Tra questi ultimi non è inutile soffermarsi – in questi tempi di feste aziendali e scambi di doni – su ciò che J. Baudrillard ne La società dei consumi definiva mistica della sollecitudine (cfr. pp. 191-210): è lo stesso sorriso istituzionale ad intervenire sempre più spesso per richiedere ai lavoratori “di più” e “gratis”, senza in realtà avanzare formalmente alcuna richiesta e, soprattutto, senza dare nulla in cambio. 

La competizione di stampo capitalistico e la precarizzazione delle esistenze, avvertibile a partire dalla precarietà lavorativa, agiscono sottotraccia, come stimolo inconscio, a mostrare di saper lavorare per più tempo alla stessa retribuzione, per non perdere quello che, nella percezione generale, è sentito non più come un diritto, ma quasi come un beneficio feudale: il lavoro. 

Le istituzioni, sia pubbliche che private, sono pronte ad ostentare, sempre pubblicamente, il loro volto paternalistico, incoraggiante o deplorante, a seconda della necessità. Faranno ciò in modi diversi: a volte, basterà solo rimarcare l’incertezza delle condizioni lavorative ed economiche del momento; a volte, per indicare la strada da seguire, potrà essere necessario ricorrere a strategie più sofisticate, ad esempio osannando, attraverso la retorica dell’eroe, colui che lavora di più, tra mille difficoltà e senza sosta, per il bene di tutti, andando oltre quanto contrattualizzato. Il meccanismo in questione, è vero, richiede una spettacolarizzazione pubblica del riconoscimento, da realizzarsi attraverso il programmato ripetersi di cerimonie in cui enfatizzare la notizia che l’eroe è stato individuato e che gli altri che non fanno come lui sono destinati all’anonimato se non al biasimo.

Individuando l’eroe, quindi, mentre si veicola un comportamento da seguire, alla portata di tutti, si individua al contempo il comportamento da non seguire. Quello di chi, nella stessa situazione, ha preferito rimanere in disparte o ha scelto di dire no – magari adducendo motivazioni sindacali o il rispetto di standard di sicurezza, oppure, semplicemente perché vuole alimentare la ferma convinzione di non essere il proprio lavoro. Ebbene, costui è destinato ad essere considerato, in quanto indisponibile all’eroismo che i tempi richiedono, non-eroico, quindi mediocre, senza volto, anonimo…chissà che non si tratti poi di un destino auspicabile…

AP (22/12/2024) per Agorasofia

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