Filosofia della DAD: la filosofia e il suo uso didattico nel colmare la distanza

Abstract: Distance Learning has undermined the traditional method of teaching philosophy, based on proximity. Starting from the objectives of the teaching of philosophy in high schools, considered as a mini-mum, it has been realized that the digital civilization needs a previous reflection on its purposes to ensure that technological prothesis is functional to the reduction of distance, for which it would be necessary to ask for a maximum of philosophy, to be extended to all school curricula.

Parole chiave: didattica, distanza, protesizzazione, tecnologia, prossimità

Keywords: didactics, distance, prosthetics, technology, proximity

Introduzione: un minimum di filosofia

Quello che si doveva fare si è fatto. Senza battere ciglio, all’indomani del fatidico 4 marzo 2020, quando la scuola è stata chiusa fino a data da definire, ci si è adoperati per colmare quella distanza che per DPCM diventava necessaria e che inaugurava la stagione del distanziamento sociale.

E così, come tutto il mondo dell’istruzione in ogni sua forma, dalla scuola materna fino alla scuola secondaria per finire con la formazione terziaria, anche l’insegnamento della filosofia ha dovuto conoscere e adottare la formula della Didattica a Distanza, sperimentando, senza preavviso e senza remore, nuove forme di comunicazione mediate dallo strumento tecnologico informatico. Ciò è avvenuto, tuttavia, senza aver compiuto, mossi proprio dall’urgenza, una previa riflessione sulla validità pedagogica di tale modalità e senza un’adeguata riflessione filosofica sul mutamento in corso relativo alla protesizzazione dell’insegnamento. Di fatto, l’insegnamento in generale, e l’insegnamento della filosofia in particolare – anche solo per il fatto che nell’immaginario collettivo sia stato associato alla sua pratica tra i colonnati del Peripato aristotelico, nel giardino epicureo, nel museo alessandrino – si è trovato a svolgere la sua funzione non più in prossimità, nella vicinanza immediata, cioè senza mediazione strumentale, ma nella distanza mediata da un mezzo che fungeva da protesi, utile, tuttavia, per colmare la lontananza fisica.

Lasciando da parte gli aspetti pedagogici generali legati all’uso massiccio e indifferenziato della Didattica a Distanza nella scuola pubblica negli anni a cavallo tra 2020 e 2022, di cui ci siamo occupati altrove[1], vorremmo provare ora a riflettere sul significato filosofico della didattica nel suo tentativo di colmare la distanza, cioè vorremmo provare ad abbozzare una Filosofia della Distanza, così come essa si è palesata durante l’insegnamento della filosofia nella Didattica a Distanza.

Cerchiamo, dunque, in primo luogo, di definire quale sia il compito che ci si prefigge di realizzare attraverso l’insegnamento della filosofia, così come esso viene attualmente a strutturarsi all’interno del triennio degli indirizzi liceali, per poi constatare se l’introduzione della tecnologia, attraverso cui si è potuta praticare la Didattica a Distanza nelle scuole in tempo di pandemia, abbia o meno nuociuto alla pratica dell’insegnamento-apprendimento, in generale, e della filosofia, in particolare. L’ipotesi di lavoro, la precomprensione originaria che muove questo contributo è che l’educazione abbia smarrito in tale protesizzazione dell’essere umano quella prossimità necessaria che le è richiesta per essere realmente efficace.

Dovendo necessariamente essere sintetici, ci basti ricondurre lo studio della filosofia ad un obiettivo minimo, su cui tutti potremmo concordare: esso introduce alla complessità, giova alla riflessione, agevolando, attraverso la pratica metodica del dubbio, il passaggio dal senso comune al senso filosofico dell’esistenza, un passaggio che, a nostro avviso, non dovrebbe essere precluso ad alcuna studentessa e ad alcuno studente della scuola pubblica che si prepara ad occupare un posto in una società che vorremmo fosse massimamente civile. Per dirla con Ortega, ammesso che abbiano ragione i detrattori, per i quali la filosofia non serve alla vita quotidiana, sarà pur vero che è attraverso di essa che riusciamo a chiarire, tra le altre cose, ciò che intendiamo con l’espressione vita quotidiana[2]. Colui o colei che riflette con attenzione autentica su un qualsivoglia argomento postogli dalla vita si allontana, dunque, dall’opinione comune (doxa) e si inoltra per vie non battute «al di sopra dei soliti pensieri»[3], provando a schivare i paradigmi di senso preconfezionati. Da questo punto di vista, dovremmo, perciò, riconoscere alla filosofia una sorta di inevitabilità drammatica e inattuale che dovrebbe andare ben oltre l’insegnamento delle conoscenze specifiche ed estendersi ad una sorta di competenza esistenziale significativa. L’inevitabilità è riconducibile al fatto che «la filosofia metteil suo naso dappertutto»[4], in quanto la natura umana non è esclusivamente volta a facilitarsi la vita, ma anche a complicarsela, arrovellandosi su quesiti decisivi, anche se questi rimangono privi di soluzioni. La filosofia è inevitabile perché l’essere umano, nel tentativo ermeneutico inesausto di dare senso al suo stare nel mondo, è chiamato costantemente a scegliere, integrando i propri valori con i limiti sempre infranti della propria conoscenza[5]. La drammaticità, d’altro canto, è ciò che caratterizza forse più d’ogni altra cosa il cuore di questa disciplina, che è pronta sempre a mettere in discussione – concreta, dialogica, pluralistica, prossemica – i propri risultati e a fornire ulteriori giustificazioni, allontanando il pericolo della definitività, della chiusura teoretica e pratica. L’inattualità si svela, invece, come pregio/difetto in un tempo come il nostro, che tende a spostare sempre più lontano nel tempo e nello spazio il significato del nostro affaccendarci e, pur di affaccendarci comunque, nella foga richiesta da logiche frenetiche estranee alla lentezza dell’educazione, il pensiero smarrisce il suo passo, la critica è ammutolita e la filosofia latita.

Proprio perché abbiamo memoria degli orrori cui conduce il pensiero unico, dovremmo richiedere un’espansione del filosofare, a partire da questo minimum, ad ogni ambito della vita civile. Lo studio della filosofia, così inteso, diventa una componente vitale, soprattutto se inserito all’interno di un’istituzione come la scuola pubblica, che, anziché inseguire i cambiamenti imposti da quella pseudo volontà insaziabile e immateriale che è il mercato, dovrebbe recuperare la sua funzione formativa e contribuire a pensarli quei mutamenti, riferendoli al tipo di uomini e di donne che vuole ancora e sempre contribuire a formare.

Non deve sfuggire, infatti, nel vano tentativo di aggiornare l’oggetto o il contenuto dell’insegnamento della filosofia – il primo sfuggente per la natura stessa della radice antropologica dell’attività filosofica che inerisce essenzialmente all’essere umano, il secondo storicamente incostante a causa della necessità di prestare il fianco alle mode del momento – quello che è il fine dell’insegnamento della filosofia o, meglio, delle filosofie in senso pluralistico, nelle scuole superiori. Vorremmo, perciò, far riferimento ad una ricerca risalente addirittura al 1953 commissionata dall’UNESCO, che fissava in maniera inequivocabile quelli che sono gli obiettivi fondamentali per cui la filosofia deve continuare ad essere presente non solo nei Licei, ma, a nostro avviso, debba essere estesa alle scuole superiori di tutti gli indirizzi:

  • «Dare il senso dei problemi filosofici;
  • Sensibilizzare ai valori;
  • Avviare alla riflessione teorica e alle sue implicite operazioni;
  • Curare l’acquisizione di un linguaggio specifico e delle sue forme espressive;
  • Abituare a valutare l’importanza e la collocazione delle conoscenze specialistiche, soprattutto scientifiche, nella struttura dell’umanismo»[6].

È evidente, dunque, che con la filosofia e per mezzo della filosofia è possibile in tutti gli indirizzi di studio approcciarsi ai problemi che la contemporaneità pone davanti alle studentesse e agli studenti con un significativo bagaglio lessicale e valoriale. In particolare, è interessante l’ultimo punto stilato dall’UNESCO, il quale fa riferimento ad una sorta di integrazione, sin dagli anni ’50, delle discipline scientifiche all’interno di una struttura di senso di carattere umanistico, laddove per umanistico non s’intende, evidentemente, una banale e vetusta opposizione disciplinare, una sorta di conflitto delle facoltà tra scienze esatte e scienze dello spirito. Si tratta, invece, di inserire le discipline scientifiche e l’innovazione tecnologica, su cui lo sguardo globale sfugge costitutivamente all’essere umano, giacché le finalità sono sempre di là da venire, all’interno di un quadro valoriale e di senso che sia al servizio dell’essere umano. È esattamente per soddisfare questa esigenza significativa che, dunque, la filosofia è necessaria, dal momento che agevola in maniera problematica e critica «la collocazione delle conoscenze specialistiche, soprattutto scientifiche, nella struttura dell’umanesimo».

A distanza di settant’anni dalla fissazione degli obiettivi dell’insegnamento della filosofia da parte dell’UNESCO, dunque, resta di fondamentale importanza per il futuro dell’umanità innestare il sapere scientifico e l’innovazione tecnologica, che non è altro che l’applicazione della scienza ai servizi per rendere più agevole la vita umana sulla Terra, sul sapere umanistico, quello che mette a tema valori e fini. Nell’ubriacatura ipertecnologica attuale, che non risparmia nemmeno la scuola, sempre più disponibile all’aggiornamento con l’attivazione di Licei STE(A)M (Science, Technology, Engineering, Arte and Mathematics) e TED (Transizione Ecologica e Digitale), questo innesto è ancora più necessario, affinché la rincorsa alla novità, soprattutto nel momento in cui la scienza e la tecnologia occupano una grande fetta di mercato per fare esclusivamente profitto, non diventi incompatibile con la sopravvivenza degli esseri umani. La scienza, in quanto ricerca e sapere di carattere teoretico, trova nella tecnologia una via pratica per esplorare piste di applicazione concreta e ipotesi di cambiamento dei comportamenti umani per raggiungere determinati scopi. Demonizzare la tecnologia tout court, quindi, significherebbe demonizzare innanzitutto la scienza che l’ha pensata, significherebbe condannare il pensiero a non pensare: questo la filosofia non può farlo, perché la filosofia stessa è ricerca, è scienza.

Per essere ancora più incisivi su questo punto, è il caso di sottolineare che se la scienza obbedisce alla necessità di pensare e di esplorare teoricamente nuove strade, la tecnologia si presta all’esigenza di protesizzazione per accorciare la distanza tra l’essere umano e i suoi fini nella modalità del prendersi cura del mondo e degli oggetti presenti nel mondo, entrando così in un rapporto di prossimità con gli altri e con gli enti. È nell’interstizio che si apre tra la disposizione alla prossimità con il mondo e la necessità di protesizzare la distanza spaziale e temporale con l’altro e con gli enti che s’inserisce concretamente la tecnologia con soluzioni pratiche, dopo che la scienza ha provato a fornire ipotesi.

Dall’homo tecnologicus al discipulus digitalis

Ancora seguendo Ortega, dobbiamo quindi riconoscere che: «Perché qualcosa d’importante cambi nel mondo, è necessario che cambi il tipo d’uomo e, ovviamente, il tipo di donna; è necessario che appaiano moltitudini di creature con una sensibilità vitale diversa»[7]. Ecco, è nostra convinzione che non sia abdicando allo spirito filosofico che la società civile possa crescere e progredire, soprattutto in un momento peculiare della nostra storia, in cui la tecnologia, nel suo sviluppo impetuoso, in modo più invasivo che in passato, scalza la natura, rendendola puramente accessoria, anzi si impone essa stessa come naturale, informando di sé ogni ambiente e affermandosi come tratto ineliminabile e manipolatore della nostra personalità.

Era il 12 aprile 1929 quando Ortega sosteneva che «La filosofia è rimasta schiacciata, umiliata, dall’imperialismo della fisica e impoverita dal terrorismo intellettuale dei laboratori»[8]. Egli voleva intendere che lo spirito positivistico del secolo precedente, traslato in quello novecentesco, aveva finito col mettere all’angolo il senso del filosofare. Subordinando la conoscenza all’utilità, il pensiero comune ne usciva distorto, arrivando, con una torsione che risulterà non priva di conseguenze durante il secolo breve[9], alla drammatica constatazione che sarebbe stata la tecnologia, portatrice nella nostra società di una pulsione compulsiva al suo consumo, abuso e disuso, a governare la scienza.

La verità incontestabile ed eclatante, che sembra essere sfuggita al senso comune, che per questo necessita di essere stimolato dal senso filosofico, è invece che la tecnologia non può affatto presentarsi come un fine, non foss’altro perché essa è sostanzialmente incompleta: per servire la tecnologia ha bisogno dell’essere umano, al servizio del quale trova il suo scopo. Tuttavia, con l‘avvento della pandemia, all’interno dei sistemi educativi è parso essersi accelerato il processo inverso, in base al quale debba essere l’essere umano a dover adattare e misurare i propri processi sulla base degli strumenti a disposizione (in questo caso un PC e una connessione da remoto). È pur vero che spesso i prodigi tecnologici non hanno quasi mai avuto bisogno di grandi apparati teorici giustificativi affinché di essi si potesse definirne la possibilità di utilizzo. La migliore giustificazione era – e rimane – il fatto che attraverso il loro uso le cose per gli uomini e le donne risultavano essere più semplici e meno complesse, oppure più comode e più redditizie, sia dal punto di vista dell’aumento del guadagno sia del risparmio di tempo. Ora, chi ha dimestichezza con studi pedagogici e didattici, tuttavia, sa che il primo compito di ogni educatore è quello di pensare, prima, e di strutturare, dopo, un ambiente di apprendimento ottimale, che consenta di sfruttare al meglio le potenzialità insite all’interno di ogni classe. Eppure, il ricorso indifferenziato alla tecnologia per mezzo della Didattica a Distanza per le studentesse e gli studenti in fase evolutiva è avvenuto senza il supporto di alcun accurato studio che ne dimostrasse, eventualmente, i pregi didattico-educativi.

La necessità di ricorrere alle tecnologie informatiche per accorciare la distanza con gli studenti e le studentesse durante la crisi pandemica era stata affermata nel Rapporto finale del 13 luglio 2020, che prevedeva una ripartenza in sicurezza per l’anno scolastico 2020/2021. Il documento riportava come sottotitolo “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro” e al terzo paragrafo affrontava la questione del “Digitale senza se e senza ma”. Il testo era stato commissionato dalla Ministra della Pubblica Istruzione Lucia Azzolina, la quale aveva istituito un Comitato di esperti presieduto e coordinato dal prof. Patrizio Bianchi, ordinario di Economia e Politica industriale presso l’Università di Ferrara, poi promosso egli stesso Ministro della Pubblica Istruzione nel momento in cui il 13 febbraio 2021 si è insediato il nuovo Governo presieduto da Mario Draghi, già banchiere di fama internazionale e ordinario di Economia e Politica monetaria in diverse Università italiane e straniere. È chiaro che le carriere e la formazione accademica dei personaggi che ci governano è fondamentale per comprendere gli orientamenti delle nostre istituzioni, che poi costruiscono l’orizzonte di senso da veicolare alle giovani generazioni. Vale la pena ricordare che in pieno Novecento con la Riforma di Giovanni Gentile, era lo studio della filosofia, insieme allo studio del latino e del greco a concorrere alla formazione indispensabile della classe dirigente italiana, a prescindere dal fatto che essa fosse orientata verso professioni mediche, ingegneristiche o letterarie, mentre oggi discipline come la filosofia, il latino e il greco sono considerate sostanzialmente inutili nell’ambito dell’organizzazione scolastica per lo sviluppo di un soggetto piegato alla logica del mercato.

In verità, la decretazione d’urgenza della pandemia ha clamorosamente accelerato un processo che stentava ad essere applicato a causa delle resistenze interne allo stesso mondo della scuola. Si trattava di resistenze che maturavano non sulla scorta di pregiudizi di fondo, perché ove necessaria, la tecnologia è stata utilissima nel protesizzare l’apprendimento di numerose situazioni di disabilità, ma perché una parte dei professionisti e delle esperte del mondo della formazione non comprendevano, e non comprendono ancora, la necessità di formare in maniera così esplicita e indifferenziata i loro studenti e le loro studentesse per il mondo del lavoro, per l’industria, cioè ancora non si capacitano del perché si debba pensare «Ad una scuola che riesca a formare lavoratori, critici e proattivi», così come riporta l’Allegato III (p. 91) del Rapporto finale del 13 luglio 2020 sul Progetto STEAM.

A ben vedere, il dibattito sulla necessità di implementare le discipline STEM si deve far risalire ad uno studio statunitense del 2012[10], in cui si proponevano alcuni correttivi nei programmi d’istruzione per colmare il gap esistente negli studenti e nelle studentesse in relazione alla preparazione scientifica e digitale per introdurli meglio nel mercato del lavoro. La pandemia ha azzerato il dibatto in corso e, di fatto, nell’intento di potenziare le discipline STEM, alle quali in Italia si è aggiunta surrettiziamente l’Arte, ma senza un’idea precisa di cosa e quale sia la funzione specifica dell’educazione artistica in questo percorso tecnologizzante, i nostri esperti non hanno fatto altro che traghettare la scuola italiana verso una doppia subordinazione. Da un lato, vi è la subordinazione ad un orientamento pedagogico e valoriale anglosassone, accettato incondizionatamente, e, dall’altro, vi è l’accettazione supina dell’appiattimento del curricolo sulle discipline STEM con la totale subordinazione, a causa di un pregiudizio culturale, delle discipline umanistiche a quelle scientifiche. Si tratta di una subordinazione che avviene, del resto, nella sottesa convinzione che le materie umanistiche non siano utili al mercato del lavoro, a differenza di quelle ingegneristiche e informatiche, determinando di fatto una scelta che in futuro vedrà soggetti ignoranti in termini umanistici adoperarsi per costruire società orientate in senso sempre più tecnologico, come se ciò fosse un’esigenza necessaria, e non una scelta di campo, dettata da un preciso obiettivo antropologico, etico, valoriale al fondo del progetto governamentale in atto.

Tutto ciò accade, però, senza che si sia riuscito a rispondere ad un interrogativo sostanziale e dirimente sulla questione, un interrogativo che Adolfo Scotto di Luzio poneva già nel 2015, ben prima dello scoppio della pandemia, quando già si presagiva l’orientamento della scuola italiana, piegata alla logica del mercato, degli stakeholders e dei PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento): «Qualcuno è forse in grado di dimostrare “scientificamente” che una traduzione fatta da una lingua antica o dalle pagine di un autore moderno è un tipo di pratica cognitiva inadatta per conseguire risultati in termini di potenziamento delle capacità di ragionamento e di problem solving[11].

Alla luce del Rapporto finale del 13 luglio 2020 e delle perplessità di Scotto di Luzio, riteniamo che la prospettiva attuale della scuola italiana, che ha trasformato all’occorrenza l’homo tecnologicus in discipulus digitalis, sembri obbedire ad una economia della conoscenza sempre più allineata al ritmo di una società che vuole solo lavoratori più flessibili, non soggetti pensanti e interroganti. L’affermazione di un orizzonte significativo costituito dall’innovazione tecnologica e dall’introduzione delle tecnologie informatiche nell’insegnamento, tra l’altro dietro la retorica incipiente dell’addestramento metodologico necessario per stare al passo dei tempi, ha sbilanciato sempre di più il monte ore delle discipline oggetto di studio, riducendo sempre più lo spazio della filosofia.

Nel suo L’uomo nell’era della tecnica, Arnold Gehlen ci ricorda che la tecnica nasce, in effetti, con l’essere umano: è grazie alla tecnica che egli riesce a compensare e potenziare le sue carenze organiche. Proprio in virtù dei suoi deficit biologici originari,egli è portato ad oggettivare la natura, protesizzandola, attraverso la tecnica. Grazie alla trasformazione in senso artificiale dell’ambiente circostante, l’essere umano può pertanto concedersi degli esoneri[12], attraverso cui alleggerire, per così dire,la fatica dell’esistenza. Definendo la tecnica come l’insieme delle capacità e dei mezzi con cui l’uomo mette la natura al suo servizio[13], Gehlen fa di essa il vero specchio della natura umana. L’essere umano diventa così un essere predisposto all’azione, alla modificazione dell’ambiente esterno, tale esigenza è collegata alla sua sopravvivenza e si associa progressivamente alla necessità, connessa alla volontà, di rimpiazzare progressivamente tutto ciò che è organico con ciò che non lo è, con ciò che è artificiale[14], utilizzabile come protesi.

Constatiamo che negli ultimi decenni si è assistito all’abbandono dello spazio pubblico tipico della società civile, con tutto il suo apparato simbolico e tecnico (posta, libri, giornali, caffè, piazze, strade) funzionale ad un certo tipo di potere politico-economico. Tutto ciò è avvenuto in nome di una nuova intersoggettività costruita con il ricorso ad una razionalità strumentale e subordinata all’affermazione di quella che si è fatta strada come società digitale liquida, se non già gassosa – assoggettata a mezzi tecnologici (pc, reti, smartphone, app, piattaforme informatiche, social-network), riflesso di altri, diversi e, perlopiù, evanescenti poteri politico-economici. Questo cambiamento di paradigma culturale, che ha visto anche a livello linguistico lo slittamento semantico dall’uso del termine tecnica all’uso massiccio di tecnologia, vede l’affermazione di altri sistemi di valori[15], che vanno a detrimento della partecipazione, della solidarietà e, soprattutto, della democrazia, avvertita sempre più come ingombrante, inefficiente e, quindi, sempre più delegittimata.

Ora, il punto è che tra la tecnica, intesa in senso generale come estensione protesizzante mediante la quale il soggetto addomestica il mondo e lo mette al suo servizio costantemente sotto il suo controllo, e la tecnologia, che invece possiamo intendere come l’accesso differenziato a seconda della capacità economica del soggetto a dispositivi elettronici creati ad hoc per determinate esigenze generate da chi li produce e ne detiene costantemente il controllo, vi è un abisso che è profondamente biopolitico[16] e che la filosofia non può semplicemente ignorare, facendosi travolgere dall’imperativo dell’innovazione.

Siamo convinti che sotto l’impulso di necessari accomodamenti ragionevoli, imposti dalla tecnologia che avanza, non senza interessi economici, le istituzioni filtrino nuove abitudini, nuovi tempi, nuovi spazi e nuovi valori. Portatrici di senso, le macchine, introdotte ad arte per ri-definire ciò che l’uomo può fare e come può farlo, non svolgono una funzione neutra, ma ridisegnano i confini della realtà e le possibili interpretazioni del mondo: «Lo Stato del giurato-banditore non è lo stesso del telegrafo aereo, che non è quello del telegrafo elettrico, che non è quello del telefono né quello della televisione. Questi megaoggetti determinano delle strategie simboliche diverse»[17]. Lo sviluppo di automazioni, che discriminano la tecnica dalla tecnologia, trasferiscono fuori dalla prossimità del soggetto il fine e lo scopo dell’azione trasformatrice sul mondo, lasciando credere che in quell’auto– vi sia un processo neutrale, value free, mentre, in realtà, si tratterebbe di una etero-mazione, in cui le regole della trasformazione del mondo sono stabilite da chi ha generato il dispositivo ed usa, quindi, il soggetto come fine e scopo dei propri interessi economici. E così il moltiplicarsi dei dispositivi tecnologici, introdotti surrettiziamente attraverso l’invasione di tali megaoggetti, risulta utile allo scopo di far introiettare abitudini sociali, propensioni a contentarsi di ciò che è, patteggiando eventuali cambiamenti funzionali all’insolente pragmatismo del potere[18].

Mentre la democrazia latita e la partecipazione accusa stanchezza, il nuovo potere della tecnologia si giova di questa sorta di rassegnazione collettiva indotta, accettata per comodità ed abitudine, per dirla con De La Boétie[19], che diviene quasi un tratto caratteriale collettivo, in grado di influenzare marcatamente l’insieme dei sistemi di rappresentazione della realtà operanti in una data cultura. E così il “come” – attraverso quali strumenti, quali media – viene appresa la realtà ne definisce, al tempo stesso, la possibilità di interpretazione. L’apparato mediologico di ogni epoca, infatti,si presenta, al contempo,sia come sistema tecnico in prossimità del soggetto sia come progetto culturale sia come griglia di decifrazione del senso del mondo: esso «fa da ponte fra le percezioni e le categorie»[20]. Si è potuti così passare dal sogno moderno di Andy Warhol di essere una macchina a quello ipermoderno di essere una rete, perché chiunque si dimostra refrattario all’uso delle nuove tecnologie/mediologie, chiunque si rifiuta di far filtrare il messaggio – qualunque esso sia! – è semplicemente scalzato via nella competizione prestazionale in cui siamo inseriti nostro malgrado.

Il senso del progetto culturale che si cela dietro l’invasione di nuovi media, di nuove protesi tecnico-tecnologiche, deve, tuttavia, affrontare un interrogativo cruciale che già Gehlen si poneva. Si tratta di chiarire in quali ambiti «si voglia ammettere questa razionalizzazione e dove, invece, non la si possa accettare»[21]. Occorre, cioè, definire responsabilmente se una tale razionalizzazione efficientistica sia ormai diventata l’unica possibile, oppure se ci sono dei contesti, come quelli educativi ad esempio, in cui essa risulta fuorviante rispetto all’obiettivo, dichiarato costituzionalmente, della promozione della crescita civile dei soggetti in formazione. Con la progressiva digitalizzazione di ogni settore della vita quotidiana, la nostra società ha finito con l’introiettare apparati autorepressivi[22] che trovano riscontro in schematizzazioni di comportamento[23], orientate dai principi di razionalizzazione tecnico-funzionale, affermatisi nella modernità e poi travasate nella società postmoderna proprio a partire dall’uso invasivo delle nuove tecnologie. La vita sociale nel suo svolgersi quotidiano richiede ad ogni soggetto costanti automatismi, routine, etichette. Il filtro della burocrazia sbiadisce ogni soggettivizzazione, che appare definitivamente costruita non sulle effettive capacità delle persone o sulle loro inclinazioni, ma sull’attività svolta, sul ruolo sociale assunto e giudicato, in positivo o in negativo, dall’efficienza con cui si portano a termini i compiti assegnati. Il modello Taylor-fordista pare tutt’altro che al tramonto e gli uomini e le donne sono portati a giudicare gli altri, a valutarli, sulla base di azioni intese come prestazioni relative all’adempimento di funzioni.

Diviene evidente che l’esonero, l’aiuto offerto dagli automatismi, resi possibili dall’utilizzo di protesi tecnico-tecnologiche, non risulta operativo solo in campo per così dire pratico, ma anche in ambito teoretico-intellettuale, giacché l’essere umano risulterà in tal modo razionalizzato e impersonale al massimo, funzionante, stabile e al suo confronto qualunque altro individuo che manifesti atteggiamenti o inclinazioni differenti apparirà disfunzionale, guasto, instabile, imprevedibile, da scartare. Il sospetto è che la strumentalità filtri ogni relazione: nei meccanismi perversi della burocrazia anche la vittima collabora alla propria esecuzione capitale attraverso l’espletamento di incarichi e funzioni che la danneggiano, ma a cui deve obbedire pena l’esclusione o l’emarginazione sociale.

Conclusione: un maximum di filosofia

In tale orizzonte di senso, già imperante e condizionato da un quadro connotato da un cambiamento di paradigma che non è solo tecnico/tecnologico, ma è profondamente biopolitico, ci interessava comprendere come fosse cambiato l‘insegnamento della filosofia con l’irruzione della pandemia e con l’uso strumentale della Didattica a Distanza. Se, come sostiene Angela Ales Bello, interpretando Husserl, l’insegnamento-apprendimento della filosofia è un fatto essenzialmente comunitario[24], cosa è cambiato nel momento in cui si è passati dalla solitudine inquietante dei rapporti solidali sfilacciati a causa di valori imposti dall’economia di mercato alla solitudine prossemica[25] del distanziamento sociale e fisico imposto dalla crisi pandemica e, quindi, dalla Didattica a Distanza?

Lungi dal demonizzare l’uso delle tecnologie informatiche e certi dell’utilità di determinati dispositivi tecnologici come strumenti compensativi, necessari per realizzare l’inclusione di alunnə con disabilità, la pratica della filosofia ci impone di domandarci se il contesto scuola con l’introduzione di tali strumenti rimanga invariato, cioè se con l’ingresso massiccio della tecnologia informatica si possa ancora parlare di scuola come luogo di prossimità e di relazioni intersoggettive significative, come struttura di mediazione che veicola questioni di senso e interroga la realtà.

Convinti che l‘esercizio del confilosofare[26] a scuola rappresenti davvero uno dei pochi baluardi della libertà di pensiero che prelude all’educazione ai diritti e ai doveri in vista della costruzione di una società civile, abbiamo avuto il timore che lo spettro che si aggirava nelle aule, svuotate dai decreti che imponevano la sospensione della didattica in prossimità, rischiasse seriamente di essere quello dell’istruzione negata, camuffata dietro il ripiego ipertecnologico della Didattica a Distanza, prima, e della Didattica Digitale Integrata, dopo, che, tuttavia, rimaneva sempre “a distanza”.

Nel tentativo di perorare, dunque, un maximum di filosofia, necessario per avere un proficuo rapporto di responsabilità con il mondo tecnico/tecnologico, quasi come fosse un habitus mentale a guidare la strumentalità dei dispositivi informatici, ci viene in mente l‘interpretazione fenomenologica degli enti intramondani che Martin Heidegger elaborava nel 1927 in Essere e Tempo. Nell’indagare le modalità con cui l’Esserci si rapporta con gli enti intramondani, trasformandoli da enti semplicemente-presenti nello spazio in enti utilizzabili nell’ambiente, l‘Esserci entra in un certo rapporto di vicinanza con gli enti, disposti secondo una visione preveggente del prendersi cura del mondo. Questa vicinanza non deve essere confusa con la distanza misurabile matematicamente, ma ha un significato molto più profondo, giacché la vicinanza di un ente utilizzabile è il risultato di un progetto che si infutura, che acquisisce un significato nel tempo. L’ente in questo modo diventa “mezzo” e viene posizionato nello spazio, assumendo una certa familiarità, viene dato per scontato[27].

Ma, aspetto ancora più interessante in quel passaggio di Heidegger è che la collocabilità di un determinato ente nell’orizzonte ambientale dell’Esserci dipende dal suo essere «suscettibile di appagamento»[28], permettendo così l’affacciarsi di un altro concetto filosoficamente fondamentale: la prossimità. Nella prossimità si collocano tutti in enti utilizzabili come mezzi con una specifica visione ambientale preveggente che, di fatto, appagano l’Esserci. Prossimità significa determinare non solo la vicinanza degli enti, ma anche dare un orientamento alla molteplicità degli enti utilizzabili. La visione topologica e tridimensionale dello spazio, misurabile con approccio scientifico, è successiva alla disposizione dell’ambiente secondo la prossimità appagante e utilizzabile degli enti: vi è una precedenza genealogica anche rispetto alla semplice possibilità di dare un nome allo spazio. La disposizione degli enti utilizzabili nello spazio, dunque, compresi gli oggetti tecnologici, non è, innanzitutto, il risultato di una «considerazione misurante», per cui ci risulta indispensabile una concezione matematizzante dalla realtà, ma è il risultato di una «visione ambientale preveggente», cioè di una considerazione finalistica. L’Esserci imprime una direzione di senso alla realtà e stabilisce priorità in base a quelli che sono i suoi fini, anche in relazione al rapporto che intende avere con lo spazio nel tempo: è così che egli trasforma il mondo in ambiente, ma questo implica che innanzitutto la «visione ambientale preveggente» sia il risultato di una considerazione umanistica, finalizzata all’umano e, in quanto tale, di ordine filosofico. In questo affondo fenomenologico, Heidegger scopre un altro esistenziale: il dis-allontanamento, vale a dire l’atto di avvicinamento mediante il quale l’Esserci imprime una direzione al mondo ambiente e inserisce l’ente utilizzabile in un rapporto di prossimità. Nella dimensione temporale l’ente intramondano è nello spazio cosmico come una semplice presenza, senza spazialità, ma nel momento in cui l’Esserci predispone la sua visione ambientale preveggente, egli crea il suo mondo-ambiente fatto di enti utilizzabili e procede contestualmente al dis-allontanamento.

A differenza degli enti intramondani, l’Esserci, dunque, tende ad avvicinare gli enti per disporli nello spazio e servirsene nella modalità del prendersi cura: «L’Esserci ha una tendenza essenzialmente alla vicinanza»[29]. Heidegger riferisce che l’accelerazione della velocità come segno del progresso obbedisce alla necessità costitutiva dell’Esserci di superare la lontananza, per cui anche la radio, che negli anni ’20 cominciava a diventare un mezzo di comunicazione di massa, era pensata come strumento per ridurre la distanza: «Con la “radio”, ad esempio, l’Esserci attua oggi un disallontanamento del “mondo” non ancora ben chiaro nel suo significato esistenziale, ma da cui deriva un ampliamento del mondo-ambiente quotidiano»[30].

È davvero curioso questo riferimento di Heidegger alla radio, inventata e utilizzata per inviare segnali a lunga distanza per la prima volta da Guglielmo Marconi nel 1901 e diventata poi un mezzo di comunicazione di massa negli anni ’20. La tecnologia che adotta la radio e che ne fa tecnicamente un mezzo di comunicazione di massa al servizio della popolazione è, in sostanza, il broadcasting, un modo per trasmettere informazioni da un sistema trasmittente ad un insieme di sistemi riceventi non identificati. Al di là della diffidenza heideggeriana nel riconoscere la portata di un mezzo che per la prima volta nella storia provava ad accorciare le distanze nella comunicazione, noi siamo pronti a riconoscere che il web, dopo la televisione, non è che l’erede della radio nel riuscire a trasmettere in broadcasting un messaggio da un soggetto a più utenti. Se, infatti, sostituissimo e aggiornassimo a distanza di un secolo nella citazione heideggeriana il termine “web” al termine “radio”, avremmo un punto di vista che esprime, a nostro avviso, la medesima constatazione dell’importanza, della quasi necessità costitutiva dell’Esserci di accorciare le distanze, dis-allontanando gli enti e gli altri Esserci. Al tempo stesso, però, esprimeremmo anche le nostre perplessità sul significato esistenziale di utilizzare il web per un servizio educativo attraverso la Didattica a Distanza, se l’Esserci che lo utilizza non ha collocato nel suo ambiente la tecnologia in base ad una visione ambientale preveggente.

Ciò significa che la vicinanza e la distanza debbano essere il risultato di un progetto esistenziale ben architettato dall’essere umano e finalizzato al suo appagamento. In questo quadro, l’apporto della tecnologia nel mondo delle telecomunicazioni, che Heidegger vedeva con sospetto negli anni ’20, ha la funzione di protesizzare l’Esserci nel suo tentativo di dis-allontanare il mondo, e oggi il web rappresenta ormai, lo riconosciamo, un validissimo strumento nell’agevolare la riduzione della distanza. La protesizzazione dell’Esserci mediante dispositivi tecnologici, necessari nell’operare il dis-allontanamento, deve, tuttavia, proprio grazie alla riflessione filosofica con Platone, Aristotele, grazie all’etica di Spinoza, grazie all’analitica esistenziale di Heidegger, trovare un senso alla propria esistenza nel mondo e dare un orientamento direttivo alla quotidianità, di cui bisogna prendersi cura.

Ecco, dunque, che lo sguardo filosofico gettato sulla Didattica a Distanza ci obbliga a prendere delle precauzioni di tipo metodologico, giacché senza una visione ambientale preveggente agevolata dall’analitica esistenziale, che è pur sempre un modo per esercitare la filosofia, la didattica resta distante e non compie quel salto che consente all’Esserci di operare un dis-allontanamento per rendere significativo quel commercio con lo spazio trasformato in mondo-ambiente. È per questo che lo sguardo prospettico filosofico sulla Didattica a Distanza ci conduce a ritenere che senza una consapevolezza precisa dell’uso strumentale dell’oggetto tecnologico, senza aver dato un significato ben chiaro al proprio mondo-ambiente, lo spazio che pretende di colmare la Didattica con la modalità a Distanza non va a buon fine. Il fine buono deve essere raggiunto con consapevolezza e liberamente assunto da colei o colui che nella sua visione ambientale preveggente adotta il mezzo tecnologico per operare un dis-allontanamento dell’apprendimento. Senza questa consapevolezza offerta da un surplus di filosofia, senza questa progettualità preveggente che, ad esempio, non hanno i bambini e le bambine più piccole, per le quali la DaD è stata ben presto evitata, la distanza tra gli esseri umani e gli enti non va incontro ad alcun processo di dis-allontanamento e resta tale.

E, allora, vista l’esigenza di significazione della natura umana, dovremmo richiedere sempre un aumento del filosofare. Nell’assoluto e costante bisogno di riflessione, avvertito da Edmund Husserl come caratteristica di ogni tempo, il dato non paradossale è che la ragione, nelle sue diverse forme, emerge in modo completo proprio in quanto razionalità relativa, sempre in fase di realizzazione[31]. L’essere umano, sostiene Husserl, si differenzia dall’animale in quanto si pone delle domande, trae conclusioni, offre dimostrazioni, cerca la totalità. È per via di questa ricerca che è sempre in divenire, nel tentativo di sviluppare sé stesso in quanto Io autentico, libero, autonomo, in grado, nell’uso della ragione, di oltrepassare i bordi tracciati da istanze e distanze che lo condizionano. L’esperienza della Didattica a Distanza, inevitabilmente legata alla circostanza storica della pandemia, ci ha fatto comprendere che quel minimum di filosofia, richiesto come mero obiettivo disciplinare nei programmi di insegnamento dei Licei, ha bisogno di un surplus per poter dare un senso e una progettualità alla realtà che ci circonda, al punto che diventa necessario elevare quel minimum ad un maximum di filosofia, al quale tutte le studentesse e tutti gli studenti dovrebbero accedere per poter leggere oggi i segni dei tempi che cambiano.

Riferimenti bibliografici

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[1] M. Lucivero, A. Petracca, Scuola pubblica e società (in)civile. Cronache lapidarie dei tempi pandemici, Aracne, Roma 2022.
[2] J. Ortega Y Gasset, Che cos’è la filosofia?, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2013, pp. 43-44.
[3] Ivi, p. 33.
[4] U. Eco, Perché la filosofia, Editori Laterza, Bari 2014, p. 5.
[5] Cfr. M. Furneri, L’insegnamento della filosofia, c.u.e.c.m., Catania 1994, p. 16.
[6] Aa.Vv., L’enseignement de la philosophie (une enquête international de l’UNESCO), Paris 1953, p. 204, in Aa. Vv., L’insegnamento della filosofia. Rapporto della Società filosofica italiana, a cura di L. Vigone, C. Lanzetti, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 144-145.
[7] J. Ortega Y Gasset, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 45-46.
[8] Ivi, p. 55.
[9] Cfr. E. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2014.
[10] H.B. Gonzalez, J.J. Kuenzi, Science, Technology, Engineering, and Mathematics (STEM) Education: A Primer, 2012, disponibile al sito: https://fas.org/sgp/crs/misc/R42642.pdf.
[11] A. Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi della scuola 2.0, il Mulino, Bologna 2015, p. 100.
[12] A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando Editore, Roma 2003, p. 43.
[13] Ivi, p. 33.
[14] Cfr. ivi, p. 42.
[15] Cfr. R. Debray, Lo Stato seduttore. Le rivoluzioni mediologiche del potere, Editori Riuniti, Roma 2003, pp. 56-57.
[16] Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005.
[17] Ivi, p. 57.
[18] Cfr. ivi, p. 32.
[19] Cfr. E. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere Editore, Milano 2011, p. 28.
[20] R. Debray Lo Stato seduttore. Le rivoluzioni mediologiche del potere, cit., p. 65.
[21] A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 120.
[22] Cfr. L. Althusser, Ideologia ed apparati ideologici di Stato, in M. Barbagli, Scuola, potere e ideologia, il Mulino, Bologna 1972, p. 35.
[23] Ivi, p. 133.
[24] A. Ales Bello, Introduzione, in E. Husserl, Il destino della filosofia, Castelvecchi, Roma 2014, p. 15.
[25] Cfr. M. Lucivero, V. De Angelis, La relazione educativa tra solitudini e prossimità, in «Logoi.ph», Rivista di filosofia, ISSN 2420-9775, Numero monografico Solitudini prossemiche, Anno VI (16), Mimesis, Milano 2020, pp. 255-264.
[26] Cfr. M. De Pasquale, Confilosofare in città. Un gioco serio tra arte e silenzio, Stilo, Bari 2014.
[27] Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 134.
[28] Ibidem.
[29] Ivi, p. 138.
[30] Ibidem.
[31] Cfr. E. Husserl, Il destino della filosofia, cit., pp. 27-32.

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