Il regime della psicoistruzione nella società del controllo. L’insegnamento della filosofia come fuga dalla società eterodiretta

Abstract: Foucault’s disciplinary society and Deleuze’s controlling society, typical of the last century, together with Han’s theorization of the most recent psychopolitics, are realized starting from the educational and formative processes through the regime of psychoeducation. It is an ideological system based on the myth of flexibility, performance and merit. The escape route from this hetero-directed society is identified in the philosophical practice of the spirit of utopia, in the teaching of different ways of thinking about the present.

Parole chiave: psicoistruzione, società del controllo, didattica, pedagogia, utopia

Keywords: psychoeducation, society of control, didactics, pedagogy, utopia

Dalla società disciplinare alla psicoistruzione. Strutture e strumenti della società del controllo

Nel suo saggio del 2014 dal titolo Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere[1], Byung-Chul Han interpreta la società attuale attraverso il riferimento alla “psicopolitica”, paradigma capace di superare, dialetticamente, la dicotomia tra la società disciplinare e la società del controllo[2], riconducibile alle riflessioni di Foucault e Deleuze.

La tesi di Foucault è nota: l’individuo è l’effetto di strategie e dispositivi che lo costituiscono come oggetto eterodiretto di determinanti (disciplinanti) saperi-poteri. Un legame, quello tra sapere e potere, che risulta dal fatto non banale per cui «ogni punto d’esercizio del potere è contemporaneamente un luogo di formazione del sapere. E, per contro, ogni sapere stabilisce, permette e assicura l’esercizio di un potere»[3]. Oggetto privilegiato d’indagine del filosofo francese è la società disciplinare del XVIII e XIX secolo, giunta a compimento nel secolo XX. Essa sviluppa il potere esercitandolo attraverso un controllo stringente, che grava sulle persone, sui loro corpi. Tale controllo viene messo in atto attraverso dispositivi che reprimono e orientano azioni e comportamenti all’interno di contesti chiusi, definiti da regolamenti e norme. Famiglia, scuola, caserma, lavoro, ospedale e carcere sono i luoghi di reclusione attraverso i quali le società disciplinari funzionano. Questo tipo di organizzazione della società, a nostro avviso, è tutt’altro che al tramonto e, anzi, sopravvive bene adattandosi ai tempi grazie al sofisticarsi mimetico dei dispositivi di controllo, al loro continuo mutar di forma. I poteri, intesi da Foucault come micropoteri, non hanno solo un ruolo repressivo, ma permettono certi comportamenti e ne impediscono altri. In Foucault il concetto di potere, infatti, si viene specificando con caratteristiche ben precise: non è qualcosa che si possiede, non è localizzabile esclusivamente all’interno degli apparati statali o delle strutture politiche, essendo ad essi sovrabbondante. Il potere esiste non nel mero possesso, ma nel suo stesso esercizio, che si diffonde attraverso sistemi ramificati, fatti di relazioni, connessioni, distribuzioni in specifici campi sociali (la famiglia, la scuola, i rapporti di vicinato, i rapporti sessuali). Ma, soprattutto, il potere non è semplicemente il garante di un modo di produzione, in quanto, operando a più livelli, con il fine di catturare gli individui al sistema produttivo in essere, asservendo il loro tempo al tempo di produzione, ne rappresenta, più in profondità, il suo elemento costitutivo-essenziale[4].

Deleuze, dal canto suo, raccogliendo l’eredità concettuale di Foucault, in Poscritto sulle società di controllo, individua una transizione in atto che renderebbe superate le società disciplinari. Seguendo il testo, cogliamo questa cruciale differenza: se la società disciplinare era volta ad individualizzare con precisione i corpi nella massa, cogliendone la posizione esatta attraverso la firma e il numero di matricola, la società del controllo, che segue la trasformazione della struttura socioeconomica dalla fabbrica all’impresa, per svolgere la stessa funzione ha bisogno solo di una cifra, una password. Tramite essa il corpo, ora “dividualizzato”, fa egli stesso richiesta di accesso ad un altro ambiente in cui chiede di poter essere controllato. È grazie alle macchine che si possono determinare cambiamenti nella modalità di sorveglianza, obiettivo cruciale di ogni sistema, e che oggi viene messa in atto da un capitalismo di superproduzione camaleontico, ma sempre più pervasivo e deformante grazie alle tecnologie informatiche di cui si serve: «Mentre l’uomo delle discipline era un produttore discontinuo di energia, l’uomo del controllo è piuttosto ondulatorio, messo in orbita su un fascio continuo»[5]. L’impresa, come attività economica dominante – sostitutiva della fabbrica – nella fase del capitalismo che Deleuze stava descrivendo, è ovviamente organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi, ma, sostiene il filosofo, essa ha un’anima, ossia il servizio di vendita. Risulta chiaro, quindi, che lo strumento del controllo dovrà poggiare proprio sul marketing, sulle strategie atte ad indirizzare all’acquisto. Il controllo nelle attuali società, a differenza di quelle disciplinari, si svilupperà, quindi, in modo continuo attraverso la richiesta di accesso criptato dei potenziali clienti a nuovi ambienti, nuovi mercati virtuali dove poter esprimere la propria deformazione consumistica. La conclusione di Deleuze appare, infine, drammaticamente profetica quando afferma che il regime di controllo tenderà a farsi continuo anche nei sistemi disciplinari ancora in essere, ad esempio: «Nel regime dell’istruzione: le forme di controllo continuo e l’azione di formazione permanente sulla scuola, il corrispondente abbandono di ogni ricerca all’università, l’introduzione dell’”impresa” a tutti i livelli di scolarità»[6].

Cogliendo il diffondersi del nuovo regime di dominazione previsto da Deleuze, ma sostenendo che esso avrebbe necessitato di sostegni teorici e tecnico-tecnologici che né FoucaultDeleuze avrebbero potuto notare, Byung-Chul Han comprende che l’attuale società della trasparenza è insieme pornografica, perché ci spinge costantemente all’esibizione anche dei nostri momenti più intimi, ma anche repressiva, perché ci impedisce di coltivare una sfera privata che possa davvero essere al riparo dallo sguardo altrui. Per Han la sorveglianza, il condizionamento, il controllo, il dominio esercitato sulle persone non possono che essere continui, perché sono agiti nel profondo, nella dimensione psicologica di uomini e donne: «La psicopolitica neoliberale è la tecnica di dominio che, per mezzo della programmazione e del controllo psicologico, stabilizza e perpetua il sistema dominante»[7]. Per ottenere un tale risultato, la psicopolitica neoliberale inventa forme sempre più raffinate di sfruttamento, di controllo interiore, ma anche, aggiungiamo noi, di controllo esteriore, dei corpi e dei loro comportamenti innescati attraverso il controllo interiore. Il capitalismo neoliberista, in sostanza, con il contributo di attori istituzionali privati e pubblici, continua da sempre a compiere il proprio dovere: ricercare il profitto trasformando in merce da immettere sul mercato tutto ciò su cui volge lo sguardo. Non è difficile accorgersi che a finire sul mercato, in questa distopia, che è divenuta il nostro tempo, è proprio il nostro tempo, ossia la nostra intera esistenza. In definitiva, il prodotto, sempre mutevole e contemporaneamente sempre identico nel poter essere oggetto di compravendita, siamo noi. Noi, insieme agli studenti e alle studentesse in fase di formazione; noi, con le nostre competenze, il nostro Know How e le nostre Soft Skills da trasmettere; noi, con i nostri desideri da sottomettere alle aspettative di successi economici e sociali che ci si presentano davanti come se fossero a portata di mano (o di click). Per diventare ciò che si è scelto di essere e per educare le nuove soggettività a ciò che avrebbero illusoriamente scelto di essere in piena libertà sarà sufficiente essere flessibili, aggiornando le proprie conoscenze con il sapere giusto, vale a dire quello che è richiesto dal mercato.

A fronte di queste illusioni, ogni progetto politico neoliberale, pur continuando a sacrificare l’uguaglianza alla libertà, come si ricava, del resto, dai suoi presupposti teorici fondativi, si è dimostrato sinora scientemente capace di declinare la libertà solo in senso formale e non sostanziale. Così, mentre si afferma il sogno di essere tutti e tutte imprescindibili, unici e uniche, si nasconde la brutale verità che per ogni tempo è valsa: ciascuno, quando è considerato per il suo mero fare, è irrilevante, sostituibile. Nel regime della Psicopolitica il fine dell’ottimizzazione non tiene conto delle aspettative personali, non c’è spazio per il tempo perso, per l’ozio, per le debolezze, gli errori, i ripensamenti. Tutto questo, viene condannato irrimediabilmente come inefficienza, insuccesso, devianza, malattia. Gli stessi comportamenti umani verranno valutati solo se possono essere misurati dal mercato, assumendo la veste della performance, da commisurare e quantificare all’interno di una competizione, anche non esplicita, con altre dello stesso genere.

Seguendo gli stimoli offerti dal testo di Han, rileviamo, tuttavia, che la psicopolitica, nell’era del capitalismo della sorveglianza[8], non sia semplicemente subentrata alla dimensione biopolitica, ma l’abbia oltremodo affiancata. Il paradigma del controllo, così come l’azione educativo-coercitiva e manipolativa che ne è alla base, è di tipo biopsicosociale, perché interessa il corpo, la psiche e la sfera dei comportamenti sociali, pubblici e privati. Ma il punto è che nella società capitalistica attuale l’eterodirezione delle aspirazioni e delle aspettative ha raggiunto livelli totalizzanti ed estremamente alienanti. Ciò ci porta a concludere, quindi, che la psicopolitica non possa aver semplicemente abbandonato il controllo dei corpi per accontentarsi del controllo interiore, psicologico. Il cambiamento individuato da Han, tra società disciplinare e psicopolitica, riteniamo, riguardi, più che altro, l’ambito delle priorità di controllo, architettate al fine di rendere il controllo stesso più efficace, pervasivo, in relazione alle nuove protesi tecnico-tecnologiche, che sono a disposizione ora, mentre non lo erano, ad esempio, nel periodo del capitalismo industriale. Di fatto, solo per portare un esempio ben noto, il controllo dei big data agisce inevitabilmente sul progetto (sostituto eterodiretto del soggetto), ma sono i corpi che continuano ad occupare o – in modo drammatico nel caso dell’abbandono conclamato dell’agorà politica – a non occupare determinati spazi. Il potere-sapere non può che agire sui corpi e il controllo psichico, in termini di manipolazione, non può che avere inevitabili ricadute sui comportamenti individuali e sociali. L’idea che ne ricaviamo, quindi, è che la società disciplinare (Foucault), la società del controllo (Deleuze) e la psicopolitica (Han) si affianchino e si autoalimentino in un continuum biopsicosociale, anche controbilanciandosi, a partire dai luoghi della costruzione delle soggettività, cioè la scuola, incapace ormai di produrre forme di sapere resistente al potere consolidato, che si esplica attraverso progetti pedagogici preconfezionati privi di lungimiranza etica ed educativa. Ciò che vorremmo avanzare è che, se i dettami della psicopolitica sono accettati supinamente, nella quasi totale incapacità di opporre una qualche resistenza a questo vero e proprio sistema d’influenza atto a supportare ciò che viene ritenuto ordine per il sistema economico-sociale del capitalismo neoliberale, esistono e sono tutt’ora in fieri delle forme di controllo culturale che agiscono all’interno delle agenzie scolastico-educative e che abbiamo definito Psicoistruzione[9].

Della Psicoistruzione, cioè di quel regime scolastico ansiogeno, iperstressante e psicotico che mostra un doppio volto, agendo sia su studenti e studentesse sia su docenti e personale scolastico, oggi se ne occupano in tanti. La cronaca ci racconta quotidianamente del moltiplicarsi di tentativi messi in atto in completa autonomia da singole istituzioni scolastiche che, per arginare l’enorme aumento fra studentesse e studenti di stress, attacchi d’ansia e crisi di panico, demotivazione, scoramento decidono di agire in proprio, ad esempio, provvedendo ad eliminare o sospendere temporaneamente l’attribuzione del voto numerico, ritenuto il male supremo dei processi valutativi. Azioni estemporanee come queste, pur attuate in buona fede, riteniamo non possano incidere in modo profondo, concreto e operativo rispetto all’obiettivo di recuperare il benessere biopsicosociale alla dimensione scolastico-esistenziale. E, tuttavia, mentre di fatto si procede ad identificare e sacrificare il capro espiatorio di turno (il voto, che dovrà essere sostituito dal giudizio; la ricreazione, che dovrà essere allungata; l’ambiente d’apprendimento, l’aula, che dovrà essere più colorata o connessa o dovrà semplicemente essere cambiata alla fine dell’ora) il sistema della psicoistruzione, fondato sulla costante destabilizzazione della comunità scolastico-educativa, cresce proprio in relazione all’intensificarsi di proposte e soluzioni sperimentali che verranno in breve tempo fagocitate da altre forme più o meno creative.

L’unico ordine possibile. La flessibilità come mito e l’ideologia della meritocrazia

La costante di questa direzione teoretica che abbiamo intrapreso è chiara: c’è un sistema di potere socioeconomico che si impone autodefinendosi unico ordine possibile in grado di tutelare insieme la libertà e il progresso dell’umanità. Esso si declina in ogni settore economico-sociale con i favori degli apparati istituzionali privati e pubblici, disponibili a riceverne le infiltrazioni, e appare, tuttavia, decentrato e fluido. I suoi centri decisionali sono multidimensionali (micropoteri) e deterritorializzati (atopici), ma agiscono tutti ugualmente orientati al sostegno di azioni che, anche in modo apparentemente o momentaneamente contraddittorio, possano ampliare i mercati attraverso il condizionamento al consumo. Il sistema del capitalismo neoliberale può agire incontrastato solo in quanto è penetrato nella mentalità di uomini e donne come sistema economico al quale adattare socialmente e politicamente ogni aspirazione civile dell’esistere. Esso, infatti, vive di crisi, vive nelle crisi: crisi economiche, energetiche, idriche, guerre, migrazioni, cambiamenti climatici, epidemie, ma anche crisi sanitarie, crisi delle risorse, crisi geopolitiche, crisi di sicurezza, crisi del lavoro, crisi familiari, crisi esistenziali. Ogni crisi si rigenera dalla successiva e può essere interpretata come dispositivo, atto a garantire, modificandolo, il sistema stesso. La condizione emergenziale che segue l’apertura di una crisi offre la possibilità di collocare l’azione istituzionale nell’ambito di misure eccezionali, che sorpassano la norma(lità). Così, risulterà agevole operare con disinvoltura per innestare meccanismi di controllo e processi di modificazione sugli individui, con conseguenze sul tessuto sociale e sulla percezione stessa della realtà[10].

Il regime neoliberale – finanziario, liquido, della sorveglianza – pur nel suo mutar di aspetto, ha una ragione unica: vuole insinuarsi ovunque, penetrando all’interno delle istituzioni attraverso quella che potrebbe essere definita la quadruplice radice del principio di ragione capitalistica, vale a dire attraverso i settori militare, energetico, farmacologico e tecnologico. E, per raggiungere il suo obiettivo, la ragione capitalistica si appella alla sua matrice ideologica più potente, quella intessuta del mito del merito e della meritocrazia. L’ideologia della meritocrazia è fondata sulla predisposizione di un arsenale di condizionamenti culturali che portino le menti ad accettare come valori positivi la libertà quale riflesso condizionato individuale mediante l’offerta di sé stessi e delle proprie competenze al libero mercato. La resilienza diventa così l’unica risorsa rimasta al singolo per far fronte alle mutevoli richieste del mercato e agli inevitabili insuccessi cui dovrà andare incontro da solo perché privato ormai di ogni struttura di Welfare. La flessibilità si afferma come valore supremo, che innalza a mito l’uomo contemporaneo, adesso libero dai retaggi illuministici dell’uguaglianza, e finalmente in grado di trovare il suo vero senso nel necessario cambiamento che attraversa il presente. Del resto, già Sennett sosteneva che la flessibilità, in realtà, è usata come giustificazione dell’ideologia capitalistica. E la cosa più grave è che il capitalismo flessibile si insinua nelle istituzioni formative come rimedio necessario, per mostrare che stabilità, durata, permanenza non possono più essere giustificati all’interno della società attuale, la quale richiede, in quest’ottica, dinamicità e capacità di accettare l’incertezza, il rischio e la frammentarietà del reale[11].

E così, in ambito educativo assistiamo al declino delle conoscenze in favore delle competenze, alla riduzione e compressione dei tempi di apprendimento e alla sostituzione delle discipline (dure, impenetrabili) con le aree disciplinari (più fluide e flessibili), i cui contenuti, necessariamente generici e ridotti, dovranno essere integrati attraverso progetti e percorsi per competenze da erogare, più che orizzonti da educare. Ci troviamo di fronte ad un progetto architettato ad hoc affinché la Scuola pubblica sia veicolo di una società incivile, cassa di risonanza di valori pensati e operanti altrove – nel mondo del lavoro, del capitale – mera formatrice di lavoratori e lavoratrici abituati/e alla meccanica del problem solving e non cittadini e cittadine avvezzi/e alla dialettica del problem posing, all’esercizio del pensiero critico. Nella vulgata comune sembra, infatti, dato per scontato che il sapere e la conoscenza debbano aver valore solo se è possibile spenderli sul mercato, come competenze, solo se, cioè, possono essere considerati saperi utili. Pare che la separazione diltheyana fra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften (cioè fra scienze della natura e scienze dello spirito)[12] ritorni utile solo per quel sapere strumentale che i compositi gruppi egemoni capitalistico-industriali e finanziari, per mero interesse di dominio, vorrebbero far passare come l’unico degno di orientare l’acquisizione delle conoscenze, valido perché concreto, realistico, volto al progresso. Tutto ciò a detrimento del sapere critico, prima sbeffeggiato come astratto, inutile, addirittura utopico, quindi votato all’atrofizzazione, mancando ormai la sua pratica discussione nella sfera politica, infine risemantizzato a critical thinking, inteso, però, insieme alla flessibilità, perlopiù come una soft skill utile per affrontare le sfide nel mondo del lavoro.

In questa contesa, viene taciuto il postulato chiave della distinzione diltheyana e cioè che «tutto ciò in cui lo spirito si è oggettivato, rientra nell’àmbito delle scienze dello spirito»[13], e ciò perché la contesa non si gioca solo sul piano teorico, con scaramucce accademiche o dottrinali, ma investe l’ambito delle politiche statali in tema di educazione, di istruzione e di lavoro. Il fatto che un certo sapere possa sic et simpliticer entrare nella sfera di produzione materiale, ritenendolo scevro dalla sua parte ideativa, non è una novità e non è neanche contestabile. Ciò che allarma è che il sapere strumentale, che serve ed è servo dell’utile, ha preso il sopravvento sulla pura opera intellettuale ideativa. È caduto cioè, come profetizzato da Lyotard, il principio secondo cui «l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione dello spirito»[14]. E così, nei meccanismi della Psicoistruzione, questo ci dicono anche le ultime direttive in tema di orientamento per tutte le scuole, i tempi lenti della crescita e della formazione vengono fagocitati dall’ansia di poter spendere quel poco di conoscenze che si sono memorizzate e che vengono camuffate surrettiziamente da competenze. Del resto, non è una novità che il sapere possa essere mercificato e offrirsi al migliore offerente, semmai il dato sbalorditivo è che questi meccanismi vengano trapiantati, nella totale indifferenza, nella scuola pubblica.

Allontanare gli studenti e le studentesse dalla dimensione lenta della crescita, rispettosa dei tempi di ciascuno e ciascuna, così come il far posto alla frenesia dell’acquisizione di competenze che andranno costantemente aggiornate, ci fa entrare in pieno nei meccanismi della Psicoistruzione. A questa mercificazione del sapere prendono parte, consapevolmente o meno, anche i/le docenti, impegnati/e senza sosta in pratiche valutative sempre più avulse dal valore formativo delle stesse. Quando i docenti valutano, danno una valuta, un valore a ciò che viene loro presentato. Non bisogna dimenticare che quello che si ha davanti – le parole degli studenti e delle studentesse – è il risultato del tempo socialmente necessario, in concreto, non in astratto, per produrlo e che, quindi, inevitabilmente muterà al mutare dalle situazioni socioeconomiche vissute dai singoli studenti e dalle singole studentesse. Se il voto è ridotto alla valutazione di un prodotto inteso come mera merce, performance accolta nel momento dell’ostentazione pubblica (l’interrogazione, il compito in classe, il test), ma dimentica il tempo sociale necessario a produrla, quel tempo vivo di cui è fatta la relazione educativa insieme al momento privato dello studio, allora la classe docente dovrebbe rivendicare ben altro che la possibilità di mettere un voto, giacché si apre la strada al mero lavoro di computatore e correttore automatico di crocette, già ampiamente sdoganato dall’avvento dell’e-learning.

Lo spirito dell’utopia. Una via di fuga filosofica dalla società eterodiretta

E, allora, per avvicinarci ad un primo tentativo di pensare a delle vie di fuga dai dispositivi di eterodirezione, diffusi ad ogni livello sociale attraverso pratiche di carattere didattico ed educativo, ci viene in mente che già nel 1971, in un periodo in cui in modo drammatico si andavano sviluppando sia a livello teorico sia pratico tentativi volti a ridefinire legami sociali filtrati dalle istituzioni, gli autori di un testo dal titolo emblematico, L’erba voglio[15], si richiamavano alla necessità di prendere coscienza che il mondo del lavoro e quello della scuola erano già, all’interno del sistema educativo di massa, pensati dall’alto come strettamente connessi. In quel testo gli autori sostenevano che, se l’obiettivo di molte delle sollevazioni occorse era stato quello di migliorare le condizioni di lavoro dei salariati, lo sciopero, come classico strumento di lotta, non era tuttavia più sufficiente, essendo necessario, in modo più radicale, «sottrarsi a tutti i meccanismi di controllo diretto e di incentivazione indiretta al superlavoro»[16]. Si sarebbe trattato, cioè, di contestare, ogni rapporto autoritario che, insinuandosi dapprima nelle menti degli uomini e delle donne attraverso l’educazione ricevuta a scuola, poi finiva col trasferirsi nel mondo del lavoro e nelle relazioni sociali tout court.

Il fatto rilevante è, tuttavia, che le motivazioni allo studio, come quelle al lavoro, vengono continuamente frustrate e «il prezzo pagato, in termini di superfatica, di tempo, di tensione»[17] risulta ancora troppo elevato rispetto ad una situazione socioeconomica che permane deludente. E l’errore, in realtà, non va individuato, nel sopravvalutare lo sforzo, anche eccessivo, che tutte e tutti sono ben disposti/e a pagare per garantirsi una crescita intellettuale, morale, civile, professionale attraverso l’istruzione pubblica, ma nel sopravvalutare la promessa, espressa da sempre più astratte e inermi istituzioni soggiogate dal mercato. Di fatto, la scuola delle competenze, dei PCTO, delle mille incombenze burocratiche, delle continue verifiche e delle valutazioni standardizzate perpetua una situazione di sottomissione, di non liberazione, dei soggetti in educazione. Essa continua a rappresentare una promessa infranta di promozione sociale che, nutriamo il forte sospetto, possa essere utile solo al mercato, per far entrare all’interno dei sistemi d’istruzione enti privati o per spingere innanzi una riqualificazione – delle conoscenze, delle competenze – ritenuta inevitabile e necessaria, ma solo per mantenersi competitivi una volta usciti dalla scuola ed entrati nel mondo del lavoro. È questo uno dei tranelli più sofisticati dell’ideologia iperliberista, mascherata dall’incipiente necessità di prestare il fianco alla società tecnologica. Si tratta di un’ideologia tesa ad esaltare le virtuose prospettive della flessibilità, quale competenza chiave da sviluppare fin dalla più giovane età e alla quale la pubblica istruzione si piega con tutte le sue discipline, pronte a rinunciare a porsi problemi epistemologici e sociologici di fondo. Tuttavia, pur di risultare innovative e à la page, esse inforcano il cavallo di battaglia di una meccanica educativa eterodiretta, elaborata altrove per fine allotri rispetto all’educazione alla libertà[18].

Ma la filosofia, che non è serva di nessuno e non può minimamente permettersi di servire obiettivi pedagogici fissati altrove, ad esempio dalle richieste del mercato del lavoro, non può sottostare a demagogiche favole del cosiddetto capitalismo dal volto umano, quello che promette di premiare l’intraprendenza individuale e di garantire l’ascesa sociale dei meritevoli sin dalle nostre scuole. Pertanto, al di là della filastrocca dossologica messa in piedi dalla modalità storiografica dello studio della filosofia, uno degli scopi principali della sua utilità pragmatica dovrebbe consistere, invece, nel rendere manifesta la consapevolezza che i soggetti hanno di poter costruire mediante l’educazione un altro futuro possibile. E, proprio in ragione di ciò che andiamo affermando, noi auspichiamo che lo studio della filosofia e delle scienze umane non sia limitato solo ai Licei. Non si tratta di adattare i principi di una filosofia dell’eduzione da mettere in atto nelle scuole ai tempi e alle strutture sociali in essere, tanto più se l’ideologia dominante sottrae il futuro agli individui, se ne appropria e ammaestra al mito della flessibilità lavorativa. Occorre prendere atto del ruolo educativo e formativo che i/le docenti hanno quali protagonisti/e della costruzione del mondo a venire, nel pieno spirito dell’utopia, che deve investire chi si prende la responsabilità di educare.

Già Immanuel Kant nell’indagare la pedagogia nel quadro del criticismo trascendentale nel 1803 si chiedeva quali fossero le condizioni di possibilità di una filosofia dell’educazione, giungendo ad una sintomatica distinzione tra una meccanica cultura scolastica, intesa perlopiù come mera reduplicazione pedissequa di norme e obiettivi fissati altrove, e una nobile arte dell’educazione, che coloro i quali presiedono i luoghi della formazione dovrebbero avere ben presente, giacché la responsabilità dell’architettura del mondo a venire è totalmente in capo ad essi: «Un principio [Ein Prinzip] di arte educativa, che dovrebbero avere sotto gli occhi coloro che organizzano i processi educativi e formativi, è il seguente: i fanciulli non devono essere educati conformemente allo stato presente della specie umana, ma per uno stato migliore possibile nell’avvenire secondo l’idea dell’umanità e della sua destinazione»[19]. E l’aspetto più rivoluzionario, diremmo, dell’assunto kantiano è che il lungimirante compito di educare le giovani generazioni ad una prospettiva di miglioramento sociale e culturale è totalmente in capo agli/alle insegnanti giacché, se i genitori tenderebbero a difendere il proprio orticello e i governanti tenderebbero a salvaguardare la macchina dello Stato, spetta ai/alle professionisti/e dell’educazione lastricare la strada per progettare come «fine ultimo il bene universale [dal Weltbeste[20].

Il costante annichilimento dello spirito dell’utopia educativa, invece, quello spirito che nei secoli ha rappresentato lo sforzo inesausto di uomini e donne di ideare una nuova e alternativa realtà obbedisce oggi, invero, più profondamente ad un tentativo ideologicamente fondato di rendere imperativo l’abbandono del futuro da parte della collettività, in nome del presente, quale orizzonte di vita dei singoli. Così, mentre si invitano i soggetti a disinteressarsi di ciò che potrà accadere, li si spinge contemporaneamente a concentrarsi su ciò che solo per loro dovrebbe contare, il qui e l’ora, ciò che è attuale. Ad emergere è il valore pratico delle azioni, del fare sempre fungibile, mentre l’ideale è da rubricare ad astrazione inconcludente di sognatori che non potranno mai avere alcuna presa sulla realtà. A ben vedere, ogni tempo ha avuto le sue utopie, poiché ogni tempo ha offerto elaborazioni teoretiche rispondenti all’esigenza di coltivare il desiderio, al di là del sogno di una vita non già banalmente migliore di quella sofferta, ma perfettamente capace di sostenere ogni aspirazione umana verso una concreta realizzazione. E il motivo per cui l’utopia ha mantenuto nei secoli una forza simbolica poderosa va ricercato, probabilmente, nel suo esser riuscita a sollevare l’essere umano dalla categorizzazione lineare, deterministica, dall’idea stessa di progresso storico, per farlo approdare ad elaborazioni teoriche che mostrano realtà politiche, economiche, sociali, cristallizzate, una volta per tutte, in una stasi perfetta. Come scrive Saint-Simon: «L’età dell’oro del genere umano non sta dietro a noi, ma innanzi, nella perfezione dell’ordine sociale; i nostri padri non l’hanno mai veduta, i nostri figli vi perverranno un giorno; tocca a noi d’aprir loro la via»[21].

Ecco, quindi, che una delle condizioni di possibilità di una filosofia dell’educazione scevra da condizionamenti esterni e allotri, una modalità di guardare all’insegnamento della filosofia come ipotetica via di fuga dalla società eterodiretta sta nel presentare e, in maniera molto più pragmatica, elaborare insieme agli studenti e alle studentesse narrazioni utopiche e progettuali su proposte di società che abbiano, come ingiungeva Kant, lo scopo di provare a pensare il bene comune universale. Occorre osare elaborare narrazioni che abbiano, al di là di contingenti rivendicazioni privatistiche (da parte dei genitori) o nazionalistiche (da parte dello Stato), un respiro cosmopolita, anche e soprattutto nello spirito del raggiungimento della Pace perpetua: «Il disegno o il progetto di un piano educativo deve diventare cosmopolitica. Il bene generale è un’idea che può riuscire dannosa al nostro bene particolare? No davvero. Perché pur se sembra che gli si sacrifichi qualche cosa, nondimeno esso determina un miglioramento del suo stato attuale. Quali conseguenze positive porta con sé! La buona educazione è all’origine di ogni bene del mondo»[22].

Sebbene nel 1803 Kant non avesse davanti a sé l’orizzonte sociale e culturale rappresentato dall’educazione pubblica e statale, egli ne intuì il potenziale e scrisse che «L’educazione pubblica, in generale, è più vantaggiosa della privata, non solamente rispetto all’acquisizione della abilità, ma anche rispetto alla formazione del carattere del cittadino»[23]. Non solo, Kant nel suo contesto socio-culturale intuisce anche il potenziale che esercitano liberamente, e tale dovrebbe sempre restare anche in caso di educazione di Stato, i protagonisti della formazione, i quali non possono esimersi dall’educare le nuove generazioni proprio mentre istruiscono e formano. Soprattutto e sopra tutte, come potrebbe essere facilmente intuibile nell’orizzonte del criticismo trascendentale kantiano, tra le discipline spetta proprio alla filosofia prendersi in carico l’educazione al pensare libero e autonomo, allontanando ogni forma di assunzione eteronoma di norme sociali e abitudini naturali. Con un lessico che anticipa quasi di un secolo e mezzo i capisaldi del pensiero filosofico e pedagogico che si richiamano all’educazione alla libertà e che vanno da Foucault e Marcuse, da un lato, fino ad Aldo Capitini e Danilo Dolci, dall’altro, Kant afferma: «È necessario che l’individuo senta dentro di sé la resistenza o l’opposizione inevitabile della società: si deve rendere conto di quanto sia difficile conseguire una completa autonomia razionale, sopportare le privazioni e rendersi indipendente»[24].

Scopo, dunque, dell’insegnamento in generale, afferma Kant – ma noi riteniamo che sia compito della filosofia in maniera particolare, quantomeno per il motivo di trovarsi a trafficare con testi e pretesti che ne puntellano il significato – deve essere quello di resistere alla narrazione dominante che comprime e schiaccia con il suo istinto di conservazione la libertà individuale. Come è invalso nella tradizione kantiana, sia teoretica sia esistenziale, pur nel rispetto di quel minimum necessario da tributare all’autorità legittima, il soggetto in formazione deve essere educato all’autonomia e all’indipendenza ed è questa la via di fuga di cui intendiamo avvalerci nell’approcciarci all’insegnamento della filosofia nelle scuole: «Uno dei più grandi problemi dell’educazione è cercare di conciliare la soggezione all’autorità legittima con la facoltà di servirsi della libertà: l’autorità è necessaria, ma bisogna anche garantire la libertà [Freiheit]. Ma come coltivare la libertà esercitando l’autorità? Bisogna educare l’allievo a prendere coscienza della sua libertà e, allo stesso tempo, a fare buon uso di questa. Senza questa consapevolezza, vi sarebbe in lui un puro e arido meccanismo formale. Un individuo privo di educazione non sa fare uso della sua libertà»[25].

L’educazione e l’insegnamento della filosofia mediante la focalizzazione sul nucleo tematico dell’utopia permette di raggiungere a livello teorico ciò che è precluso a livello pratico, vale a dire il superamento ideale delle contraddizioni e utilizza tale immobile armonia per rianimare la discussione intorno a nuovi modi, realisticamente intesi, di ripensare quelle contraddizioni, quei conflitti, quelle prevaricazioni, orientando verso mondi più maturi e nuovi punti di equilibrio. Si potrebbe obiettare che l’utopia dice tanto, troppo, per ottenere poco. Sì, certo, ma quel poco non è nulla. Dando sfogo all’umano desiderio di un-altro-luogo essa sublima il dolore degli sconfitti mentre custodisce, nel non-luogo (ou-topos), la loro concreta, frustrata, volontà di rivalsa ed educa all’idea di lavorare per il buon-luogo (eu-topos).

È compito della filosofia, la cui unica funzione in grado di renderla materiale vivificante è riposta nell’insegnamento, mostrare l’opzione resistente mediante il pensare secondo lo spirito dell’utopia. Oggi, dispersi nei mille rivoli di pratiche burocratiche e controverse indicazioni ministeriali, che giungono perlopiù mediante una inedita pratica epistolare, il potenziale trasformativo dello spirito filosofico dell’utopia ci appare così annacquato al punto da renderci familiari le drammatiche parole di Franco Crespi: «Quando la fine delle utopie viene erroneamente interpretata quale trionfo del “reale”, in quanto criterio di discriminazione tra luogo effettivamente raggiungibile (progetto) e non luogo illusorio (utopia), allora rimaniamo condannati al rispetto del costituito, chiudiamo nel presente le infinite risorse del nostro immaginario creativo e della speranza. Perdiamo così la nostra capacità critica, assolutizzando il limite delle possibilità contenute nel luogo determinato in cui ci troviamo, ovvero finiamo con il cadere nell’altro tipo di illusione, che consiste nel ritenere che il luogo in cui siamo attualmente sia l’unico vero luogo»[26].

Conclusione

Lo spirito dell’utopia, quindi, ci consentirebbe di affinare gli strumenti della critica, politica e culturale in primo luogo, giacché il suo essere assopito oggi rappresenta, in verità, un impoverimento per la società civile, che non trova nulla per sostenere i propri slanci ideali. L’umanità rimane così schiacciata dalle esasperanti situazioni ansiogene che le comandano sempre di essere realista, di pensare al qui ed ora. La chiave per comprendere la crisi cui va soggetto oggi lo spirito dell’utopia è facilmente rintracciabile negli imperativi posti con prepotenza dalla ragione strumentale, necessaria controparte logico-ontologica del capitalismo, che si afferma sulla ragione critica a partire dalle invasive pratiche tecno-burocratiche dominanti. Questa inversione dei rapporti di predicazione propugnata dalla società tecnologica postindustriale e che ha reso il soggetto predicato dell’oggetto o, meglio, del progetto eterodiretto attraverso l’oggetto-protesi, ha sfilacciato pure i legami interni alla società civile, sempre più condizionata nelle sue scelte e decisioni proprio da quelle protesi tecnico-tecnologiche. Attraverso esse, infatti, si può imporre un particolare filtro sul mondo e impostare, così, ogni relazione sulla modalità consumo – di quegli stessi oggetti o delle relazioni che ne vengono condizionate e che vanno appunto consumate in modo opportunistico. Per dirla con Pasolini, «la nuova industrializzazione non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano più concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane»[27].

Così, lo spirito dell’utopia, che proprio nelle scienze umane alberga e che dei valori umanistici si nutre, viene relegato al rango di sapere fantasioso, gioco per bambini, fondamentalmente inutile. Eppure, proprio esso ci ricorderebbe, invece, che l’inevitabilità non è mai un paradigma in ambito politico o, almeno, non lo è a patto che la società non si abitui a considerarlo tale. Ecco che l’utopia, col suo presentarci un non-essere – un’isola che ancora-non-c’è – indicandoci un percorso non battuto, può fornirci la chiave per negoziare nuove e più inclusive forme di convivenza civile, proprio laddove la strada della mediazione politica sembrava impraticabile, succube del paradigma dell’inevitabilità che essa stessa ha contribuito a radicare. La società prestazionale odierna, mentre si conferma nella ragione strumentale, bandisce lo spirito utopico e colloca noi docenti, professionisti dell’educazione, e le nostre relazioni sociali all’interno delle dinamiche conflittuali proprie della competizione, che si traducono in un’indifferenza verso le forme più brutali del conflitto, cioè le guerre. Chiusi in un universo interpretativo autoreferenziale, ci è spesso impossibile cogliere lo schema con cui i sistemi neoliberisti progressivamente annichiliscono ogni tensione verso altro. Ogni prospettiva simbolica e politica diversa dall’imperativo postmoderno individuato da Lyotard, «siate operativi, cioè commensurabili, o sparite»[28], appare un controsenso e legittima l’aggressività sociale e geopolitica. In una situazione siffatta, con la perdita dello spirito dell’utopia, è in gioco attualmente qualcosa di fondamentale: la possibilità d’interpretare i conflitti in un’ottica differente rispetto alle sue manifestazioni più radicali, che oggi vengono accettate in modo fatalistico, quasi fossero inevitabile conseguenza di un sistema buono che, per garantire la massima felicità per il maggior numero di persone, accetta volentieri, come male minore necessario, l’esistenza delle guerre – in verità, il male maggiore che una società civile possa pensare di dover attraversare.

In realtà, noi non saremmo insegnanti, docenti, se non pensassimo che la ragione per cui compiamo quotidianamente ogni singolo atto che inerisce alla nostra professione non fosse orientato a compiere una trasformazione in positivo nelle persone con cui abbiamo a che fare. Non saremmo educatori, se non pensassimo che il motivo per cui educhiamo ha a che fare con la predisposizione di uno spazio inedito che apre a qualcosa di inevitabilmente e coraggiosamente nuovo e, del resto, non lo saremmo in maniera autentica, se quel nuovo per il quale proviamo a lastricare la strada non si configurasse come eu-topico. Non saremmo soggetti entrati nella fase matura e adulta dell’umanità, quella che si assume l’onere delle responsabilità educativa su altri-da-venire, se ci lasciassimo ancora una volta abbacinare da tutte quelle prospettive dis-topiche, che oggi, anche con una certa insistenza, sembrano dominare il mercato letterario d’intrattenimento giovanile, sempre più pervaso di narrazioni fantasy che si dividono tra definitive visioni apocalittiche mediate da figure estranee all’umanità e troppo entusiastiche apocatastasi mediante il ricorso sistematico alla violenza. In qualità di adulti, insegnanti, educatori e professionisti della formazione dovremmo provare a recuperare un approccio magistrale in relazione al nostro lavoro quotidiano con le nuove generazioni, e non semplicemente professorale, che faccia cioè del distacco professionale la sua cifra specifica. L’idea, insinuatasi da qualche decennio, secondo la quale il rispetto nei confronti delle nostre alunne e dei nostri alunni si manifesti nella necessità di essere superpartes rispetto alle questioni che anche lontanamente possano apparire politiche, quale è, ad esempio, la prefigurazione di uno spazio per lo spirito dell’utopia, ha condotto, nei fatti, ad un totale disimpegno civile, all’indifferenza morale rispetto alla capacità di pensare e progettare la città, la vita in comune, il bene della comunità e della società. Questo disimpegno collettivo e ben posato ha condotto all’adiaforizzazione delle coscienze delle cittadine e dei cittadini nella rinuncia anche a quelli che furono gli ideali kantiani della pace perpetua, della federazione cosmopolitica degli Stati e dell’autonomia del soggetto.

Riferimenti bibliografici

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[1] Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Milano 2016.
[2] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976; G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, in Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000.
[3] M. Foucault, La società disciplinare, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 54.
[4] Cfr. Ivi, pp. 51-53.
[5] G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, cit., p. 238.
[6] Ivi, p. 240.
[7] Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, cit., p. 93.
[8] S. Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS University press, Roma 2019.
[9] Cfr. M. Lucivero, A Petracca, Il Bluff del merito e della flessibilità nella società prestazionale. I rischi della Psicoistruzione, pubblicato su ROARS il 22/12/2022, disponibile all’indirizzo https://www.roars.it/il-bluff-del-merito-e-della-flessibilita-nella-societa-prestazionale-i-rischi-della-psicoistruzione/; Id., L’altro volto della Psicoistruzione: la comunicazione istituzionale e l’alienazione alla base dell’azione pedagogica, pubblicato su ROARS il 14/03/2023, disponibile all’indirizzo https://www.roars.it/laltro-volto-della-psicoistruzione-la-comunicazione-istituzionale-e-lalienazione-alla-base-dellazione-pedagogica/.
[10] Cfr. A. Petracca, Il dispositivo crisi. La dimensione dell’organizzazione e la comunità perduta, in M. Lucivero, P. Cangialosi (a cura di), Pensare la crisi. Declinazioni storiche e paradigmi teorici, Aracne, Roma 2022, p. 191.
[11] R. Sennett, L’Uomo Flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2001, p. 20.
[12] Cfr. W. Dilthey, Scritti filosofici, UTET, Torino 2013.
[13] W. Dilthey, La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1982, p. 213.
[14] J-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2008, p. 13.
[15] E. Fachinelli, L. Muraro Vaiani, G. Sartori (a cura di), L’erba voglio. Pratica non autoritaria a scuola, Einaudi, Torino 1972.
[16] Ivi, p. 16.
[17] Ivi, p. 17.
[18] Cfr. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni GruppoAbele, Torino 2011.
[19] I. Kant, L’arte di educare, Armando Editore, Roma 2001, p. 95.
[20]  Ivi, p. 96.
[21] H. de Saint-Simon, De la réorganisation de la société, in L. Canfora, La crisi dell’utopia, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 285.
[22] I. Kant, L’arte di educare, cit., p. 96.
[23] Ivi, p. 101.
[24] Ivi, p. 102, il corsivo è nel testo.
[25] Ibidem.
[26] F. Crespi, Crisi e rinascita dell’utopia, in L. Mumford, Storia dell’utopia, Feltrinelli, Milano 2017, p. 10.
[27] P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2008, p. 23.
[28] J-F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., p. 7.

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